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Capofonte

Quando si arriva davanti alla Chiesa di San Giovanni andando a destra si imbocca l’ultimo tratto della via San Cilino. Dopo poco, dove la via piega a destra c’è la piscina e lì inizia, verso il monte, (dunque sulla sinistra) la via delle Cave. In meno di 400 metri di blanda salita prima e più forte dopo, si arriva a quello che si chiama Capofonte che è costruzione in pietra al bordo a sinistra della strada prima della curva che porta alla chiesetta di San Pelagio.
Questo è un punto storico, ma di quelli che sono stati importanti e fondamentali per la vita della città anche se pochi sono i triestini che ne conoscono l’esistenza e la storia. A tal punto è negletto che lo stesso Comune di Trieste ha classificato – così come riporta il Piccolo del 31/7/2014 – questo posto come “laghetto-stagno”.
Ma qui non vi è alcun laghetto o stagno bensì (solo) un manufatto di pietra con cunicoli e gallerie entro le quali confluivano acque dalla soprastante montagna, ivi venivano filtrate e poi convogliate nelle condutture che portavano alla città.
L’importanza storica è comprovata anche dal fatto che (fortunatamente) questa opera è andata sotto la tutela della legge del 2004 “Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio”.
Comunque sia, il manufatto ha subito danni stante le mancate precauzioni di cui molto i tecnici avevano parlato per proteggerlo dal traffico di camion necessario per la completa ristrutturazione della case Ater in alto della via Capofonte.
L’acquedotto Teresiano è stato inserito nella lista dei 120 acquedotti antichi d’Italia.
Questa storia ben oscura per i triestini (compreso il sottoscritto che, finchè a piedi non si è messo a girare per strade e stradine, mai aveva veduto né di esso sentito parlare), è storia che parte dagli antichi romani e arriva – con una interruzione di molti secoli – ai primi del 1900.

L’acqua potabile che rende possibile la vita da lì si incanalava per giungere alla città approfittando di una altitudine di 97 metri sul livello del mare.
Lì dunque iniziava l’acquedotto romano che era uno dei 3 acquedotti da loro costruiti, di cui il più importante era quello della Rosandra e poi c’era quello della valle di Rozzol di cui però pochissimo si sa.
Questo del Capofonte usufruiva della relativamente abbondante acqua che scendeva dalla montagna soprastante (1) e ha funzionato fino a tutto il VI secolo quando non la vetustà dell’acquedotto bensì la furia devastatrice dei Longobardi ne ha decretato la sua fine assieme alle 2 altre fonti. Ma di questa suggestiva motivazione della fine dell’acquedotto romano ne parlano in pochi mentre tutti gli studi – che sono però essenzialmente tecnici – si limitano a dire che dal VI secolo l’acquedotto fu abbandonato ma senza spiegare le cause.

Da quel momento in poi la città è vissuta con l’acqua di pozzi cittadini e cisternoni in vari punti sia dentro sia qualcuno anche fuori dalle mura e solo l’esiguo numero di abitanti ha fatto sì che questo sistema di pozzi fosse in qualche modo sufficiente. (2)

Ma con lo sviluppo della città dall’inizio del 1700, il rifornimento idrico divenne del tutto insufficiente. Carlo VI diede disposizione di costruire un acquedotto, ma ciò non avvenne e solo con la energica Maria Teresa si pose mano al problema divenuto nel frattempo impellente.
La decisione fu di attingere l’acqua nella zona di San Giovanni già usata dai romani  e seguendo il loro tracciato. Venne scartata l’ipotesi di attingere alla fonte della Val Rosandra perchè opera molto più costosa.

I tecnici di Maria Teresa fecero dunque la stessa scelta dei romani guardando al Capofonte sicchè nel 1751 l’acqua ha iniziato da lì a scorrere nelle nuove condutture verso la sottostante città ed entrando in essa dalla zona dei Portici di Chiozza per arrivare con delle tubazioni al Ponterosso e lì alimentare la fontana del Mazzoleni con il suo Giovanin, poi l’altra del Nettuno in piazza della Borsa per terminare in piazza Unità con la fontana dei 4 Continenti.

Va da sè che l’alimentazione delle fontane non aveva una funzione estetica quanto funzionale perchè lì la popolazione poteva andare a rifornirsi. Solo alcune case ebbero la conduttura privata ed erano i palazzi di persone come i Carciotti, Stratti, Sartorio e poche altre nonchè palazzi come la Luogotenenza o la Locanda Grande.

Il punto debole di questo acquedotto era la sua forte dipendenza dai periodi di siccità o di abbondanza delle piogge (come si può capire da attenta lettura della nota2) e per questo motivo furono fatti, senza però grandi risultati, vari ampliamenti cercando di captare altre vene.

Il sistema prevedeva che l’acqua raccolta dalla montagna venisse “filtrata in un ambiente ipogeo dotato di 2 bacini riempiti con ghiaia di varia pezzatura. Qui venivano depositate le impurità grossolane mentre una successiva vasca di decantazione assicurava l’allontanamento di quelle più fini.” (3)
Durata di tutti i lavori: 3 anni !! e sulla durata non c’è necessità di commento.
L’opera venne finanziata con i proventi del dazio sulla pesca

Il Capofonte ha funzionato fino all’entrata in esercizio, cent’anni dopo (1858), dell’acquedotto con l’acqua proveniente da Aurisina. Con qualche ampliamento ancora ai primi anni del ‘900 e continuando a dare acqua ancora per anni in casi di siccità, il Capofonte è stato del tutto dismesso a causa dell’inquinamento della sorgente, salvo ancora un ultimo guizzo estremamente utile durante la prima guerra mondiale.

In più di 2000 anni di storia la città ha avuto varie soluzioni al suo problema di rifornimento idrico di non facilissima soluzione stante la dislocazione della città (4)

Dietro il manufatto del Capofonte si apre sulla montagna una vasta area verde. Ne vediamo un po’ nella foto con la strada che si fa …. strada nel verde e porta ora alle case Ater.
La zona denominata Bosco del Capofonte  dopo discussioni e prese di posizione degli abitanti della zona è divenuta parco urbano con finalità didattico naturalistiche.

Per capire tecnicamente il Capofonte è utile fare riferimento alla descrizione che si trova su un cartello nei pressi della costruzione. Qui sotto riporto il testo che mi sembra molto chiaro ed esaustivo.

Capofonte dell’acquedotto teresiano

All’inizio del secolo XVIII la città di Trieste dovette affrontare il problema del rifornimento idrico, in quanto l’acqua piovana raccolta in pozzi e cisterne non era più sufficiente a soddisfare il fabbisogno di una città in espansione e di una popolazione in aumento.
Già l’Imperatore d’Austria Carlo VI nel 1732 aveva ordinato la costruzione di un acquedotto, ma i lavori vennero avviati appena nel 1749 con decreto dell’Imperatrice Maria Teresa. L’opera venne finanziata con i proventi del dazio del pesce.
Per la captazione dell’acqua fu scelta la zona di Guardiella dove, nei pressi della chiesetta dei santi Giovanni e Pelagio, esisteva una copiosa sorgente, forse già usata dai romani. Per aumentare la portata dell’acqua venne scavato negli strati di arenaria un complesso di gallerie della lunghezza di 235 metri. Lo stillicidio abbondante dal soffitto e dalle pareti veniva convogliato nelle canalette presenti nel pavimento, che portavano l’acqua nel Capofonte, dove una serie di tre vasche consecutive assicurava la decantazione ed il filtraggio attraverso la ghiaia.
Un primo schizzo planimetrico delle gallerie venne pubblicato da Eugenio Boegan nel 1906, mentre il rilievo completo e aggiornato è stato eseguito dalla Società Adriatica di Speleologia nel 1986.
Dalla zona di Guardiella l’acquedotto proseguiva verso la Rotonda del Boschetto e imboccava la via Pindemonte, quindi, all’altezza di via Piccolomini, continuava per la contrada dell’Aquedotto ( Viale XX Settembre) fino in città, dove terminava il suo percorso nelle fontane del Mazzoleni situate in piazza del Ponterosso, in piazza della Borsa e in piazza Grande (Piazza Unità).
La costruzione dell’acquedotto teresiano, o almeno il suo percorso principale, venne conclusa nel 1751, come si legge sulla lapide posta sopra l’ingresso del Capofonte.
In seguito, a causa della sempre maggior crescita della popolazione della Trieste emporiale, vennero scavate altre gallerie per aumentare la portata ma, dopo la costruzione dell’Acquedotto di Aurisina e dopo un sopravvenuto inquinamento delle acque, alla fine del primo conflitto mondiale l’acquedotto teresiano venne abbandonato definitivamente.

Nota 1
Breve sintesi delle caratteristiche idrogeologiche di Trieste
Come si sa Trieste è città particolare e a questa caratteristica non sfugge nemmeno la situazione idrogeologica.
Il Carso è terreno tutto permeabile e ogni goccia sparisce subito nelle profondità senza che si creino né falde né torrenti né laghetti ( fa eccezione Percedol)
In maniera molto chiara Alessandro Pesaro sull’Archeografo Triestino del 1955 scrive:
Il Friuli Venezia Giulia è una regione dalla particolare configurazione geografica caratterizzata da una vasta pianura alluvionale ricca di risorgive che si estende ai piedi di catene montuose attraversate da numerosi torrenti e corsi d’acqua.”
Alessandro Pesaro prosegue evidenziando dunque che per il Friuli non c’è mai stato un problema per il rifornimento idrico mentre per l’area tutta a est e cioè la Venezia Giulia, la particolare e diversa composizione del terreno ha portato Trieste a dover vivere sempre con risorse limitate.
Questa propaggine orientale della regione non potendo attingere alle falde carsiche profonde centinaia di metri, è stata attraversata in più epoche da lunghe condutture destinate a rifornire Trieste. Fin dagli inizi la storia della città si intreccia quindi con quella del suo approvvigionamento idrico.”

Nota 2
Per chi è interessato a capire meglio gli aspetti tecnici di pozzi, cisternoni può essee utile un passo tratto da un articolo scritto Paolo Guglia della Sezione di Speleologia Urbana della Società Adriatica di Speleologia.
Il terreno sul quale è stata edificata la città di Trieste è formato prevalentemente da un’alternanza di marne ed arenarie (Flysch). Questo tipo di roccia è impermeabile e favorisce lo scorrimento superficiale dell’acqua piovana, con la formazione di corsi d’acqua temporanei a regime torrentizio. Allo stesso tempo, però, permette anche una limitata penetrazione nel sottosuolo, lungo le fratture, gli interstrati e le varie discontinuità (permeabilità per fratturazione).
In territorio urbano potremo trovare quindi acque di percolazione, ancora in lento movimento all’interno della massa rocciosa, oppure acque di falda, dove la presenza di strati impermeabili e di particolari condizioni litologiche ha portato alla formazione di localizzati acquiferi sotterranei.
Queste acque presenti nel terreno possono ritornare alla luce in presenza di particolari condizioni geomorfologiche (sorgenti naturali), oppure in corrispondenza d’interventi specifici realizzati dall’uomo. Le acque di percolazione sono captate dai cunicoli di drenaggio e
più piani di discontinuità saranno attraversati, maggiore sarà la resa finale della galleria (portata direttamente proporzionale alla lunghezza dello scavo). Le falde sotterranee sono intercettate invece dai pozzi: lo scavo verticale attinge le acque presenti in questi bacini ipogei, spesso di limitata estensione e normalmente posti a poca profondità dalla superficie.
Per quanto riguarda le finalità del presente lavoro, che analizza sotto il profilo tecnico le opere realizzate dall’uomo per la raccolta e la conservazione dell’acqua, sono identificabili le seguenti tipologie di cavità:
• le sorgenti: punti del territorio, più o meno modificati con opere artificiali, in corrispondenza dei quali l’acqua emerge naturalmente dal terreno;
• i pozzi: scavi verticali nel terreno che permettono la raccolta dell’acqua presente nel sottosuolo (autoalimentati, non necessitano di sistemi esterni di alimentazione)
• le cisterne: scavi nel terreno che permettono la conservazione dell’acqua (pareti a tenuta stagna, necessitano sempre di sistemi esterni di alimentazione). “

Nota 3
Alessandro Pesaro, Archeografo Triestino, 1955

Nota 4
Breve storia degli acquedotti triestini
L’approvvigionamento idrico nella storia di Trieste si può riassumere in alcune significative tappe messe qui in grande sintesi
– acquedotto romano dal I secolo a.C. fino al VI secolo (distrutto dai Longobardi)
– nessun altro acquedotto fino al 1751. Solo pozzi e cisterne. Ossia si spera nella pioggia.
– acquedotto teresiano dal 1751 fino a circa fine 1800
– acquedotto costruito da una società privata nel 1857 che partiva da Aurisina
– acquedotto intitolato a G. Randaccio (ufficiale morto nel 1917 sull’Isonzo) costruito nel 1929 che viene collegato al precedente partente da Aurisina
– acquedotto sottomarino con una conduttura di più di 1 metro di diametro che passa nel golfo di Trieste portando, da San Giovanni al Timavo, acqua alla città. Realizzazione nel 1971
– rinforzo dell’acquedotto con acqua proveniente da sorgive sotto l’Isonzo. (1980)

Rebus sic stantibus la città attualmente sembra più che sufficientemente dotata di risorse idriche per i sui fabbisogni stante anche il progressivo calo del numero di residenti.

La mia Trieste, 30 Dicembre 2015