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Giardino Pubblico (V) – I Busti 2

 

Alessandro Moissi

A cavallo tra ‘800 e ‘900. Attore di teatro figlio di un commerciante albanese e di una triestina.
In Austria inizia la sua carriera di attore, ma il successo stenta molto a venire a causa del suo accento italiano e di una voce ritenuta un po’ stridula. Ma il successo poi arriva ed è uomo di teatro importante, molto amato dal pubblico (1)
Tournè in tutte le parti del mondo: Usa, Russia, Sud America ed ovviamente in tutte le capitali europee.
Combatte nell’esercito austriaco e dopo il conflitto la sua stella declina.

1879 – 1935
Busto opera dello scultore Ugo Carà

Nota 1
Proprio la sua vocalità ricca di modulazioni accompagnata da una gestualità a tratti dirompente, a tratti lenta, divenne il mezzo, singolare e anticonvenzionale, con il quale il M., formatosi al di fuori di una scuola precisa e che non lasciò veri allievi, tendeva ad accentuare gli elementi spirituali dei personaggi e a esprimere la propria personalità, coinvolgendo e affascinando il pubblico.

Biagio Marin


La sua lunga vita fatta di 94 anni ha attraversato i periodi più travagliati delle nostre terre.
Nascere nel 1891 e morire nel 1985, studiare a Vienna, a Firenze, conoscere e frequentare persone come il filosofo Gentile, Prezzolini e l’ambiente della “Voce” a Firenze, Carlo Arturo Jemolo e poi a Trieste Saba, Stuparich, Svevo, Quarantotti Gambini, Giotti, Voghera, Tomizza e poi in tempi più recenti Manlio Cecovini, Pier Paolo Pasolini, dedicarsi allo studio della filosofia occidentale a partire dai filosofi greci, approfondire studi di filosofia orientale e del confucianesimo, dover affrontare le scelte difficili di quegli anni, fare i conti con illusioni e le loro cadute, provenire da una famiglia di pescatori gradesi molto laboriosi, avere affrontato la perdita della madre in giovanissima età,
sono tutti elementi che stanno dentro quest’uomo (proposto al Premio Nobel nel 1984) e quindi dentro la sua poesia.
Poetica che qui neppure sfiorerò perché non in grado, né qui è luogo.
Un cenno invece al suo legame con Trieste dove visse con la sua famiglia per 30 anni dal 1939 al 1969.
L’amore per Trieste lo trovo tutto in un suo libro non di versi, ma di prosa che odora però di incantata poesia come è incantato il suo animo nel guardare una Trieste nascosta. “Strade e Rive di Trieste” uscito nel 1967 (2)

1891 – 1985
Busto opera dello scultore Spagnoli

Nota 2
Rieditato nel 1986 sempre da Scheiviller, Milano. Ora fuori catalogo.

Giovanni Mayer

Inizia come scalpellino, ma poi studia a Milano alla scuola degli artisti di Brera e presto inizia la sua carriera di apprezzato scultore ritornando a Trieste.
La sommità del Faro che da lontano si vede e indicava ai naviganti prima dell’era tecnologica la città e il suo porto, è opera di questo coraggioso scultore.
Affrontare una scultura di 7 metri collocata su quella cima cosa è se non un atto di grande coraggio?
La Vittoria alata è un angelo di rame con le sue ali a sfidare le raffiche della bora, restare lì incollato come è giusto che lo sia per un angelo, creatura divina, che ben poco ha da fare lassù in cielo e tantissimo qui.
Grande fiducia anche del Mayer verso Giacomo Srebot (3) che fu quello che provvide a realizzarla con la tecnica a sbalzo in una officina in zona Barriera Vecchia. (4)
Ai piedi del Faro altro grande lavoro del Mayer con il monumento al marinaio ignoto realizzato in pietra d’Orsera.

Mayer lo ritroviamo anche dentro al Museo Revoltella e a Ravenna. E questo per citare solo le sue opere maggiori.
Al Museo Revoltella, al IV piano, nella sezione dedicata agli artisti triestini, c’è un piccolo capolavoro: “il Risveglio”.


Il risveglio di una fanciulla dal torpore del sonno, tema svolto da tanti pittori e scultori, ma qui delicatissimo e nello stesso tempo improntato a grande verismo. La posizione delle braccia, i muscoli del ventre contratti nello sforzo di sollevarsi, gli occhi semichiusi.

Mayer vinse il concorso indetto dalla Società di Minerva assieme al Circolo degli Artisti per la realizzazione di una lampada votiva da mettere a Ravenna sulla tomba di Dante, uno dei simboli dell’italianità.
Idea formulata in seno alla Società Dante Alighieri di Roma che trovò Trieste immediatamente entusiasta e pronta al lavoro. Siamo nel 1908, in pieno periodo di fervore irredentista.
E Riccardo Zamperi – anche lui qui tra i personaggi del Giardino Pubblico – dalle colonne del suo giornale “L’Indipendente” si fece fautore di questa idea che divenne realtà sotto le mani del Mayer e con il contributo fattivo di tanti triestini – da presumersi perlopiù irredentisti – che donarono oggetti d’argento poi fusi e divenuti la lampada votiva.

Mayer è anche presente con statue nel Cimitero di Sant’Anna e nel cimitero greco-ortodosso.
E poi qui, nel Giardino Pubblico con ben 7 busti (Giuseppe Caprin, Cobolli, Svevo, Veruda, Pitteri, Rota, Sinico)
Ma è buffo – ed è l’unico – che sia autore di busti e nello stesso tempo busto lui stesso in una scultura di Romeo Ratmann.
Come dire … chi la fa, l’aspetti

1863-1943
Busto opera dello scultore Romeo Ratmann

Nota 3
Sul sito della Provincia di Trieste ed anche altrove questo artigiano è nominato come Giacomo Sebroth

Nota 4
Molto istruttivo quanto raccontano Halupca e Veronese nel loro libro “Trieste nascosta 1“ Ed. Lint, a proposito di questa statua.

“… Per resistere alla violenza del vento all’interno lo Srebot fece trafilare un’asta di acciaio … la munì di forte manicotto all’altezza del torace … ed armò tutta l’asta di braccia metalliche rotanti a spirale. Su questa fissò la statua, che fu così dotata di un’anima di sostegno …. grazie al movimento dei tiranti interni viene tuttora compensata la pressione esterna provocata dal vento.

E qui si inserisce un aneddoto, sicuramente vero, riportato dagli autori.

Ogni 50 anni lo Srebot aveva stabilito fosse necessario intervenire all’interno della statua per regolare …. Qualche anno fa ai guardiani del Faro si era presentato un vecchietto (un ex collaboratore dello Srebot) che insisteva per compiere quel lavoro di regolazione essendo venuto a scadenza il periodo programmato …“

Storie di altri tempi o meglio di altri uomini.

 

Giuseppe Sinico

musicista e compositore con il padre musicista che lo avviò in tenera età allo studio del violino e del violoncello.
Enfant prodige se già a 18 anni compose un’opera – La Marinella – molto apprezzata dai triestini non solo per la giovane età del suo autore – che dunque lasciava intendere che la città avrebbe avuto negli anni seguenti un valente compositore -, ma anche per l’ “Inno a San Giusto” contenuto nell’opera.
Versi patriottici (5) e immediatamente censurati dalle autorità austriache.
Invero la produzione del Sinico si fermò a 3 o 4 opere tra cui la critica musicale è concorde nel dire che i “Moschettieri” è la più riuscita.

La Marinella” , al di là dei motivi prima detti, non ha avuto grande successo e messa in scena molto di rado. Ed essendo un’opera minore anche le esecuzioni non hanno avuto grandi interpreti contribuendo il tutto ad avvalorare giudizi non sempre positivi.
Alla morte del padre il Sinico, stante anche la numerosa famiglia, dovette dedicarsi in toto alla scuola di canto ereditata ed anche alla professione di maestro di musica e direttore musicale in alcune chiese.

1836 – 1907
Busto opera dello scultore Giuseppe Mayer

Nota 5
Viva San Giusto! Trofeo di gloria
Quest’è il vessillo che guida a vittoria.
Cadrà l’orgoglio dell’oppressor,
e a questa nostra bianca alabarda
ci ricongiunga fratelli ognor!

 

James Joyce


Nome universalmente conosciuto, scrittore universalmente elogiato dai critici, ritenuto uno dei 3 numi assieme a Proust e Kafka, ma forse uno dei meno letti.
Carmelo Bene che io stimo essere il più geniale attore di teatro classico del ‘900, critico letterario, uomo di profonda cultura scomparso ahimè troppo presto nel 2002 a soli 65 anni, lo aveva definito un “visitato, uno a cui è stato dato il dono dell’immediatezza” e si dichiara stupito che dopo l’Ulisse ci siano ancora persone che hanno il coraggio di scrivere libri.
In una bellissima intervista ad Antonio Debenedetti così dice Carmelo Bene: “Joyce riesce a raccontare non raccontando … penso sia il libro della storia umana … un libro eternamente chiuso .. ho visto il libro sempre molto intonso, è lì in un angolino, bisognava averlo … rappresentava un po’ il decoro degli anni ’60 . C’è questa elettricità in Joyce nella lingua, questo linguaggio che si arrende ai significati, ne crea degli incroci continui e i personaggi non esistono”

L’ultima verità del mondo occidentale” – scrive Raymond Queneau (6)

Qui mi fermo. La saggistica su Joyce è enorme e qui è posto solo per qualche cenno soprattutto del legame che questo scrittore, nato a Dublino e morto in Svizzera, ebbe con Trieste.
Anzi un non-legame.
Il poeta e critico letterario Gilberto Finzi scrivendo di lui nel 1982, anno del centenario della nascita, dice che “Joyce ha fatto molto poco per farsi amare … preferisce essere un emarginato della letteratura come è stato un esiliato nella vita: uno che ha voluto liberamente il proprio esilio scegliendo lo Spazio e il Mondo come patria al posto della patria ….”
Vale nel piccolo anche per Joyce-uomo e la città di Trieste.

Mio nonno Pepi – cui questo sito è dedicato – quale professore e preside di liceo, poi “congedato” all’arrivo della amministrazione italiana dopo la prima guerra, frequentava da preside decaduto e semplice docente, la scuola Berlitz dove per breve fu collega del Joyce e rammento che mi diceva di aver avuto con lui solo poche sbrigative parole e non per sua – cioè di mio nonno – volontà.
Italo Svevo parlando di Joyce scrive che avendo voluto Proust conoscere Joyce mentre era a Parigi, nell’iniziare la conversazione gli chiese se conosceva una tal persona. E Joyce gli rispose seccamente “no” E Proust allora chiese se conosceva tal altra persona e ancora il nostro a dire di no aggiungendo “e non me ne frega niente” . Svevo conclude con “si separarono e non si rividero più”

Pur avendo voluto imparare il dialetto e anche parlandolo, Trieste non poteva che essere un luogo.
E del resto a Trieste Joyce arrivò perché da Dublino la necessità di un lavoro l’aveva portato a Zurigo per un promesso posto di insegnante alla Berlitz School. Ma lì non c’era nessun posto e gli venne suggerito di tentare alla Berlitz di Trieste. E così assieme alla moglie Nora arrivò con il treno a Trieste. Del suo arrivo e dell’essere arrestato, per buffi motivi, poche ore dopo dalla polizia, racconto nell’articolo “Piazza Libertà”.
A Trieste per vivere insegna e scrive qualche articolo per giornali. Modesti guadagni testimoniati dalla grande quantità di targhette messe su case della città “Qui soggiornò James Joyce” . Troppo spesso l’affitto era spesa che non riusciva a sostenere anche perché qui a Trieste la famiglia si era allargata con la nascita di 2 figli.

A proposito di famiglia nelle lettere private di Joyce alla moglie Nora raccolte e pubblicate dalla casa editrice Il Saggiatore scopriamo un Joyce poco noto (ma come è giusto che lo sia la vita privata di una persona se nulla di male compie) e che lo fa assomigliare a Leopold von Sacher Masoch per il suo feticismo per le mutandine della moglie da cui desidera essere sculacciato e fustigato.

Il legame più grosso l’ebbe con Svevo che gli aveva chiesto lezioni di inglese. Ma le lezioni di inglese furono occasione per Svevo di parlargli di sé quale scrittore. Uno scrittore i cui due romanzi – Una Vita e Senilità – pubblicati a sue spese, erano stati del tutto ignorati da tutti.
Ma Joyce appena lette le due copie avute dalle mani di Svevo dichiara il suo entusiasmo. Stessa cosa poi per la “Coscienza di Zeno” letta quando era a Parigi.

Joyce dunque uno dei primi, assieme a Montale, a credere in Svevo e a parlare di questo scrittore triestino a Parigi con i più grandi di quei tempi e ricevendo Svevo altri apprezzamenti.
E questo quando il triestino Guido Caprin, figlio del più noto Giuseppe, dalle colonne autorevoli del Corriere della Sera stroncava pesantemente il terzo ed ultimo romanzo di Svevo.

Trieste lo ricorda:
– Museo James Joyce
– Statua in bronzo di Nino Spagnoli sul Canale.
– Un ponte sul Canale anche se nessuno lo chiama ponte Joyce bensì ponte Curto per ben note vicende
– Busto in Giardino pubblico
– Una scalinata che da via Bramante sale verso via Tiepolo e l’Osservatorio Astronomico
– Numero 8 targhe su case “qui visse James Joyce” cui si aggiungono altre (circa una decina) che ricordano posti frequentati da Joyce

1882 – 1941
Busto opera dello scultore Marcello Mascherini

Nota 6
Poeta, scrittore, drammaturgo con grandi interessi per la matematica, la filosofia, il cinema, la musica, una produzione di libri enorme come tantissimi i suoi incarichi di prestigio, collaborazioni a giornali e riviste di critica letteraria. Ha attraversato tutto il ‘900.

Riccardo Zampieri

 

Convinto ed attivo irredentista con a suo carico processi e carcere. Amico di Oberdan e di Giuseppe Caprin.
Giornalista, ma sempre in giornali impegnati sul fronte dell’irredentismo iniziando con il clandestino “La Giovane Trieste” per approdare poi inevitabilmente all’ “Indipendente” che tanti guai gli procurò con la polizia austriaca.
Con il fondatore del Piccolo, Theodoro Mayer, lavorò assiduamente all’uscita del “Piccolo della Sera”, giornale edito dal 1886 al 1940.
Allo scoppio della guerra si nascose salvo poi consegnarsi alla polizia ed essere quindi incarcerato in Austria dove già anche il figlio era in prigione mentre l’altro figlio combatteva sotto la bandiera italiana.
Zampieri fu anche pittore avendo studiato belle arti prima a Venezia e poi a Roma. Ma senza incontrare alcun successo.

1859-1930
Busto opera dello scultore Franco Asco

Giulio Camber Barni

E’ uno dei tanti che diserta dalle file dell’esercito austriaco per arruolarsi in quello italiano.
Giulio Camber il suo vero nome, cui rimase aggiunto quello di Barni assunto per non essere riconosciuto ed accusato di diserzione in caso di cattura.
Ufficiale convinto sui campi di battaglia si guadagna onore e medaglie lanciandosi con i suoi soldati senza paura contro il nemico. La morte lo sfiora tante volte, ma non lo prende. E lo prenderà, per una caduta da cavallo, tanti anni dopo in Albania dove fu mandato perché, in virtù della sua preparazione giuridica ( era nella vita civile un avvocato essendosi laureato in legge all’Università di Vienna) era stato destinato a Bologna al Tribunale Militare. Incarico rifiutato non sentendosi di dover giudicare dei suoi simili.
Ufficiale sì ed anche laureato, ma con l’animo popolano così come lo tratteggia Giani Stuparich. (7)

La triste prima guerra gli ispira una serie di poesie la cui raccolta porta il titolo “ La buffa”. (la “buffa” era il soprannome non molto edificante della fanteria … ma chissà per quali motivi ?!).
Chi mette insieme le sue poesie in una raccolta è l’amico Virgilio Giotti e lo stesso Saba ebbe ad occuparsene perché il libro trovasse un editore. Ma il libro fu anche sequestrato dalle autorità fasciste forse perché poco rispettoso verso l’esercito italiano per il quale varie volte aveva rischiato la vita e per infine perderla con indosso la divisa.

Di lui Giani Stuparich dice “Giulio Camber Barni lascia un volumetto di poesie che solo la castroneria burocratica d’un paese, che stava fascistanizzandosi, osò sequestrare appena uscito e che la presunzione del mondo letterario cristallizzato permette ancora che rimanga nel buio dell’ignoto. …Forse il solo poeta veramente popolaresco dell’altra guerra. La visse col popolo soldato, la sentì e la espresse con l’invenzione, la rozzezza, il cuore e la tragicità del popolo. Non tutte le poesie di “La Buffa” sono all’ egual altezza, ma alcune poche restano esemplari di un’epica sbocciata spontaneamente dalle trincee, da mettersi vicino ai più bei canti dei soldati dell’altra guerra.”

Entrando nel Cimitero ex Militare di via della Pace, percorso il dritto vialetto v’è una piccola stele eretta al centro della minuscola piazzetta rotonda con a lato la sua fontanella e bidoncini di plastica nati per contenere detersivi per lavatrici e ora buoni a riempir d’acqua i vasetti sulle tombe.
Su tre lati di quella stele, tre brevi sue poesie (8)

1891 – 1941
Busto opera dello scultore
Nino Spagnoli

Nota 7
Trieste nei miei ricordi, Giani Stuparich, Il Ramo d’Oro editore

Nota 8
Sapete che son malato
d’amore per un Iddio
che regge tutte le cose?
Io sono malato d’amore
pel grande Iddio del dolore

Quattro fucili lucenti
oppure arruginiti
quattro fucili incrociati
mi trasporteranno dai reticolati

Mi seppellirete
in mezzo a una dolina
vorrei un po’ di terra
di quella carsolina
vorrei un po’ di terra
di quella gineprina
un po’ di terra rossa
sopra la mia fossa.

Italo Svevo

Ah quanti giorni ho passato a pensare su cosa scrivere a proposito di Italo Svevo. Che si chiamasse nella realtà Ettore Schmitz, che fosse impiegato nella società Veneziani vernici del suocero, che abbia scritto “Una vita”, “Senilità”, “La coscienza di Zeno”, che abbia molto stentato ad avere successo, che Joyce gli abbia dato una mano determinante per farlo conoscere ed apprezzare, che sia stato attento osservatore delle teorie di Freud, che sia morto nel ‘28 per un incidente d’auto nei pressi di Motta di Livenza ? E così altro ancora come con grande compiutezza si può invece leggere su wikipedia ?
Questo sito è altro.

E allora mi limito a raccontare un aneddoto accadutomi ed a copiare alcune righe di un suo romanzo.

Estate e nelle mie peregrinazioni triestine passo per piazza Hortis. Potrei fare le rive per andare a riprendere la macchina in Campo Marzio dove trovo posto senza dover pagare il balzello alle società che gestiscono i parcheggi, ma preferisco la via interna. Lì, uscito da Cavana, c’è sempre fermo ad attendermi, tra la chiesa di Sant’Antonio Vecchio e la piazza Hortis, il buon Svevo. Negli ultimi anni, da uomo schivo e mite, ha preso l’abitudine di cercar di nascondersi dietro cesti di patate o borse di fintissima pelle, o pignatte, o vestiti che la Cina ci manda e che i suoi vicini, titolari di bancarelle, espongono senza curarsi di non stargli addosso.

La mia lettera al primo cittadino Cosolini, all’Assessore alla Cultura, al Piccolo con tanto di foto non sortisce alcun effetto. Anzi i bancarellai, sempre sul Piccolo, fanno sapere che per loro è tutto a posto e va bene cosi.
Certo, io lo vedo, lo saluto. Ma i turisti ??? Chi, forestiero, da lì passa non lo vede. Occasione sprecata. E chi viene a Trieste, guida alla mano, e vuol vedere la statua dedicata a questo scrittore che impressione ne può ricavare? Che a noi, a Trieste, di Svevo
non ce ne po’ fregà de meno.

 

Ma non è di questo che voglio raccontarvi.
Estate (per la precisione 2016) e seduti sul muretto che delimita il giardino della piazza, un piccolo gruppo di ragazzini, apparente età 8-10 anni.
In piedi due adulti che si comprende facciano parte della piccola comitiva. Educatori cui sono affidati i ragazzi ? (Educatori ??!!).
Non tutti i ragazzini se ne stanno seduti. Un paio, nella noia di quella sosta, iniziano a prendere a calci la statua, prima piano, poi facendo a gara a chi tira più forte.
I minuti passano e lo sport del calcio continua. “Io so fare di meglio” sembra pensare uno dei ragazzini ancora seduti che usando come scalino il cappello che Svevo tiene in mano, s’arrampica fino in cima mentre un altro, dall’altra parte, tenta di fare lo stesso, s’aggrappa al libro che Svevo tiene con la destra, tira tira ma la scalata gli riesce a metà.
“Questi ragazzi sono affidati a voi?”
“Si, perché?”
“Ma vi sembra giusto ed educativo che possano fare tutto questo’”
“Si, perché?”
Un dialogo tra sordi finito a parolacce come è più che giusto in questi casi.
L’aneddoto – anzi i 2 aneddoti – non hanno bisogno di commenti.

E men che meno le ultime 10 righe di “La coscienza di Zeno” scritta nel 1923 che qui trascrivo. Sembrano queste righe un cannocchiale temporale che scruta l’orizzonte.
“Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati innocui giocattoli.
Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa entrerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”.

1861 – 1928
Busto opera dello scultore Mayer

Nicolò Cobolli

Anche a lui si deve un piccolo pezzo che contribuisce a Trieste come città diversa.
In tutta Italia esistono, collegati alle parrocchie, gli oratori. A Trieste ci sono anche gli oratori (9) ma la struttura portante dove i ragazzi possono giocare in area protetta sono sempre stati i ricreatori.
E Nicolò Cobolli – anzi Nicolò Cobol perché il nome fu cambiato solo nel 1928 – fu convinto sostenitore dell’idea dei ricreatori nonché diligente e attivo loro gestore sia prima sia dopo la prima guerra.

Non ho usato qui la parola “inventore” dei ricreatori – così come ovunque scritto – perché l’iniziativa venne proposta in primis da associazioni di stampo liberal-democratico che con difficoltà riuscirono a far approvare, dopo un iter di 17 anni, dal Consiglio Comunale il progetto del primo ricreatorio. (10) E fu poi il Consiglio Comunale ad affidare ad una persona che aveva tutti i requisiti come Cobolli, la gestione di questo nuovo istituto cittadino il cui scopo filantropico era ben chiaro (11), anche se a ben guardare non disgiunto a questo scopo primario v’era quello più squisitamente politico di ideali patriottici

Era il 1908 quando il progetto divenne realtà con l’apertura del primo ricreatorio, il Giglio Padovan, che ancora fa il suo servizio in via Settefontane, poco più su della Piazza Perugino e in corrispondenza con uno slargo.
Altri seguirono. L’Enrico Toti di Città Vecchia già 2 anni dopo.
Come terzo il Nordio nella zona di Scorcola altri 2 anni dopo il precedente.
Subito nel 1913 segue il quarto, il Brunner, nella zona di Roiano e il quinto, il De Amicis, in zona San Vito.
Poi la guerra, ma già nel 1919 il sesto in zona San Luigi, dedicato al volontario triestino P. Lucchini caduto sul Monte Calvario.
E qui termina lo sviluppo comunale dei ricreatori che vede entrare dunque subito al termine della guerra la Lega Nazionale come promotore e gestore di 3 strutture che va a creare con proprie risorse in rioni guarda caso con popolazione prevalentemente di sinistra o slavi. San Giacomo con il Pitteri, Servola con il Gentilli e poi a Villa Opicina.

Il mutato clima politico italiano si fa sentire presto anche sui ricreatori. Come prima cosa i 3 della Lega Nazionale vengono portati sotto la gestione comunale e il regime fascista riesce a mettere le mani sopra i ricreatori comunali dando loro una impronta di educazione pre-militare e molto agonistica e competitiva.
Dopo la seconda guerra i ricreatori hanno ricevuto nuovo impulso ed oggi sono 13, disseminati nella città e periferia. (12)

Anche se non inventore, Nicolò Cobolli ha legato il suo nome ai ricreatori, istituto prettamente triestino. Lui, nato in Istria, e che a Trieste venne per continuare a fare il maestro di scuole elementari, e questo finché il governo austriaco glielo concesse stante le sue attività filo-italiane. (13)
Ma il suo approccio educativo rivolto ai  giovani andava ben oltre il suo ruolo di maestro.
Attento ai loro bisogni ben più di tanti moderni psicologi.
Preoccupato per la loro salute sia fisica che morale.
Convinto che nell’interesse della comunità, le istituzioni – in questo caso comunali – debbano attuare politiche concrete a favore dei giovani.
Ed infine di grandissima lungimiranza. Quasi da non credere che queste sue parole siano state scritte intorno al 1910: “Il problema più importante del secolo presente per la gioventù è l’educazione, che purtroppo oggi è una parola vaga, un problema trascurato i cui effetti si vedono nella società per il germogliare continuo di un malessere, di un malcontento che si esplica con le più brutte forme”.

Oggi i ricreatori sono in crisi. I ragazzi che vi accedono sono sempre di meno e sulle cause di questa flessione ci sarebbe ampio motivo di studio. La struttura della famiglia è cambiata così come la società e come gli interessi dei ragazzi sempre più influenzati da giochi dietro ai quali si muovono grandi interessi economici.

Oggi queste strutture cercano di adeguarsi con la massiccia introduzione di attrezzature informatiche e vivono anche grazie anche a una sinergia creatasi con l’ istituto del SIS (servizio integrativo scolastico) (14).

Cobolli anche botanico in ossequio alla grande tradizione di botanica esistente a Trieste nell’800.
Cobolli anche studioso e amante della montagna. Per molti anni a capo della Società Alpina delle Giulie e prolifico autore di pubblicazioni e guide sulla montagna.
Cobolli anche speleologo con una intensissima attività di catalogazione delle grotte esistenti e delle loro caratteristiche.

1861 – 1931
Busto opera dello scultore Mayer

Nota 9
Gli oratori in Trieste sono frutto dell’interessamento dei Salesiani.
Io non sono un amante delle date, ma qui può essere divertente fare qualche congettura (che più di congettura non può essere ) sulla dinamica della creazione di queste strutture. E’ il 1889 quando l’Associazione Progressista di stampo liberal-democratica propone al Comune l’idea di ricreatori. Il Comune nicchia.
Pochi anni dopo – 1894 – i Salesiani di Trieste si rivolgono ai più esperti confratelli dell’Opera Don Bosco di Torino per essere aiutati ad aprire un oratorio. Ciò avviene rapidamente nel 1895 mentre il progetto dei ricreatori è fermo in Comune e li resterà fermo fino all’approvazione nel 1906.
A guardare queste date il sospetto che i religiosi abbiano battuto sul tempo – copiando l’idea – i laici ci può stare.
E ci può stare anche il sospetto che il Comune abbia avuto occhio di riguardo per i religiosi anziché per i laici. E’ lo stesso Podestà Dompieri che trova in via dell’Istria 29 un’ ampia sede dopo che le due precedenti di via Molino a Vento e di via dell’Istria si erano rivelate insufficienti.

Delicati equilibri politici. A chi,  dentro il Consiglio Comunale, le idee irredentiste non andavano bene aveva tutto l’interesse che i liberali – i propugnatori dei ricreatori – da sempre invece irredentisti, non avessero partita vinta. E cosa ci poteva stare meglio se non bruciare il terreno con l’iniziativa dei salesiani la cui posizione politica sulla delicata e basilare questione anti o pro era molto sfumata?
Interessante in ogni caso l’atteggiamento di Trieste verso i salesiani caratterizzato da posizioni contrapposte ed addirittura contrapposte dentro i liberali.
A favore lo Zampieri con il suo giornale l’Indipendente mentre la direzione del partito era contrarissima. Il motivo del contendere in questo caso non era il pro o contro l’ Austria, bensì il timore che i salesiani si prestassero a diventare docili strumenti di chi voleva imbastardire la città ogni giorno sempre più insidiata da forze straniere.

Nota 10
L’Associazione Progressista di stampo liberal-democratico presenta nel 1889 al Consiglio Comunale l’idea dei ricreatori. La proposta non viene accettata. Essa con varie aggiunte è ripresentata dall’associazione Patria succeduta nel 1892 alla Progressista sciolta dalle Autorità per essere troppo vicina alle idee irredentiste e ritenuta responsabile di aver ispirato manifestazioni di piazza come quella per l’apertura dell’ Università a Trieste.
Proposta alfine approvata nel 1906

Nota 11
Questa la motivazione per la creazione dei ricreatori: “preservare dall’ozio e dal vagabondaggio gli allievi maschi delle civiche scuole popolari, generali e cittadine intrattenendoli durante le vacanze e durante le ore in cui non hanno lezione nei locali dei ricreatori con esercizi ginnastici, con giochi ricreativi, col lavoro manuale, con lezioni di canto e di musica, con letture, col teatro, eventualmente con la ripetizione delle materie scolastiche, ecc. in modo da promuovere la loro educazione fisica, morale ed intellettuale”.

Nota 12
Giglio Padovan via Settefontane (Barriera-Rozzol)
Enrico Toti via del Castello (San Giusto)
Ermanno Gentilli via di Servola (Servola)
Riccardo Pitteri via San Marco (San Giacomo)
Pietro Lucchini via Biasoletto (San Luigi)
Nordio Pendice Scoglietto (Scorcola)
Cobolli Strada Vecchia dell’Istria (Valmaura)
Edmondo De Amicis via G.R. Carli (Campi Elisi)
Guido Brunner via Solitro ( Roiano)
Giani Stuparich viale Miramare (Barcola)
Ricceri via Romoli (Borgo San Sergio)
Fonda Savio via Doberdò (Opicina)
Anna Frank via Forlanini (Ponziana)

Nota 13
A fargli perdere il posto di maestro nel 1889 fu la sua partecipazione a Udine all’ inaugurazione al monumento a Garibaldi.
Allo scoppio della guerra fu deportato in Austria e fece ritorno a Trieste a guerra terminata.

Nota 14
Il SIS è un servizio che svolge una funzione educativa ad integrazione dell’attività scolastica. Nel pomeriggio, terminata questa, i ragazzi partecipano alle attività ludiche e di svago del ricreatorio.
Va però precisato che i SIS presso le scuole sono in grado di accogliere solo una parte delle richieste dei genitori. Buona parte dei non ammessi al SIS confluiscono, per decisione dei genitori che fino all’ultimo avevano sperato in una ammissione al SIS, al ricreatorio di riferimento della scuola. Ma solo svolgendo attività ricreative e non anche di studio scolastico come per gli ammessi al SIS.
Di certo Nicolò Cobolli, pur lungimirante, mai avrebbe immaginato tutti questi risvolti che fanno del diritto all’istruzione un percorso ad ostacoli.

 

 

Pasquale Besenghi

Chi è Besenghi?
Besenghi è quella via dove c’è il Seminario nel rione di San Vito.
Che altro dire perché che altro sapere?

Dei personaggi che popolano i vialetti del Giardino Pubblico il Pasquale Besenghi è uno dei più vecchi essendo nato a fine 1700, a qualche anno di distanza dal Rossetti.
Di temperamento schivo e neppure molto amato dai triestini del tempo indispettiti – si dice – dai suoi versi ironici nei loro confronti. Sì, perché Pasquale Besenghi degli Ughi è stato un poeta e in alcune sue poesie ed anche novelle non ha mancato di ironizzare su importanti personaggi del tempo seppure mai facendone i nomi. Una ironia che trovava facile sostentamento nei tanti difetti di una classe di uomini molto intenti – salvo nobili e numerose eccezioni – a fare profitto in qualsiasi modo e poco interessati alla cultura. Chissà, forse difetto non solo di quei tempi e non solo dei triestini.
A non creare un grande legame tra il Besenghi e la città, oltre al suo carattere schivo e alle ironie verso i triestini, v’è da considerare la sua presenza saltuaria nella città.

Nato ad Isola e lì rimasto per gli studi fino a 19 anni e poi a Padova per proseguire studi giuridici e letterari.
E poi i suoi vari viaggi come a Taranto e  per alcuni anni in Grecia. Ed ancora anni trascorsi in Friuli e poi a Venezia per fare ritorno a Trieste solo un anno prima di morire nel 1849.
A Venezia e Padova sono state pubblicate delle sue opere ed anche questo come poteva essere gradito ai triestini i cui sentimenti verso Venezia sono sempre stati quelli ben noti?
Il viaggio a Taranto ben breve. Attraverso la Dalmazia il suo intento era arrivare a Taranto e da lì andare a Napoli per sostenere i moti contro i Borboni. Arrivato a Taranto se ne ritornò a casa perché giunto – per sua fortuna – fuori tempo massimo ossia dopo la soppressione violenta di quella insurrezione dove la stessa Austria diede un sostanziale supporto ai Borboni.

Il suo viaggio di alcuni anni in Grecia viene visto da alcuni come adesione alla ribellione dei greci contro l’Impero Ottomano quasi a voler trasformare il Besenghi in un piccolo Garibaldi pronto ad imbracciare il fucile per nobili cause.
Ma così pare non sia. Il fatto d’arme cui il poeta partecipò fu minimo e vi si trovò dentro quasi per caso.
Il suo viaggio in Grecia è quello di un uomo alla ricerca di un altro mondo dove le stesse pietre dei templi potevano esprimere valori cari al Besenghi. Un mondo che lui trovò affascinante, ma anche molto deludente, stante la miseria di molti posti. Le tante lettere del Besenghi ai suoi amici ed al cognato raccontano bene di ciò.

Molte delle sue poesie e anche prose sono state raccolte in un libro da Oscarre De Hassek pubblicato con una lunga prefazione nel 1884.
Da questo libro di cui qui mia foto della copertina traggo una breve poesia (15) che bene evidenzia la fondatezza dell’essere spesso paragonato  al Leopardi e al Foscolo. Traggo anche la parte finale della prefazione (16) che sembra voler – a ben X anni dalla sua morte –  prendere coscienza che il Besenghi potrà essere ricordato a Trieste non più che per il Seminario.

1797 – 1849
Busto opera dello scultore U. Carà

Nota 15
Mistero alto è la vita
Né l’uomo, che mortale alito spira,
Alzerà mai a questa  Iside il velo.
Fiero segno  all’ascosa ira del Fato,
Batton  cuori quaggiù che  niun  gl’intende:
Eternamente miseri,  dannati
A errar vedovi sempre, una non trovano,
Una che a lor risponda anima sola.
O vita !  Allegri giorni
E non inglorj, a me pur promettevi
E fè ti tenni , e lunghi anni sperai.
O speranze mie povere ! O delirij !
Disingannato e sazio
Anco la cara gioventù partita
Piglia or da me: sei pur arcana, o vita !

Nota 16
E tu, povero Besenghi degli Ughi, sconosciuta ma non ultima gloria della tua terra, permetti che anche su queste  pagine si parli adesso di te e si levi dall’ingiusto oblio il tuo bel nome di poeta e di cittadino. Da un luogo all’altro della tua patria più ristretta, i tuoi canti risuonano adesso, dopo un lungo immeritato silenzio, sulle labbra di quanti sentono il bello: e il racconto della tua vita raminga, spesso misteriosa, vola di bocca in bocca come la leggenda di un tempo che fu.  Tu fosti il poeta dell’amore e del dolore; tu fosti il poeta dal vigoroso sentire, il vate nel senso più nobile della parola. E se anche talvolta l’ira di Foscolo contro “la genia petulantissima e bislacca” dei pedanti e degli uomini senza cuore ti trasse a percuotere i vigliacchi tuoi avversari collo scudiscio di Giovenale, o a pungerli colle saette di Archiloco, o a renderne ridicoli i costumi col sorriso beffardo di Democrito, il tuo verso potente , giudice inesorabile  ma giusto, non colpì nessuno senza ragione. Ed è perciò che adesso mi propongo di parlare nuovamente di te e di raccogliere il meglio de’ tuoi scritti, affinchè tu possa essere noto anche fuori del natio tuo paese.”

Quarantotti Gambini

Il suo nome così altisonante – Pier Antonio Quarantotti Gambini – mi ha sempre dato come un senso di disagio e, confesso, di distanza. E’ incredibile come fatti così banalmente stupidi possano condizionare il pensiero.
Altri, per motivi di valutazioni politiche, han rimosso questo scrittore ed è ben più grave del mio pensiero confessato di disagio e distanza per futili motivi. Valutazioni politiche non sono futili motivi e altri non sono io.

Pier Antonio Quarantotti Gambini è scrittore di molti romanzi (17) , articoli su riviste letterarie (18), sulle terze pagine di quotidiani, ma anche di un “Primavera a Trieste”.
Mi voglio fermare su questo libro. Egli nella prefazione lo definisce una testimonianza e non una storia.
Scomode le testimonianze “di chi ha provato, udito, veduto” – come lui stesso scrive nella prefazione – per poi aggiungere quasi a mo’ di sfida “non è e non può essere tutto: ognuno che abbia qualcosa d’altro da dire, amico o avversario, lo dica.”
Il libro è testimonianza dei 45 giorni della occupazione yugoslava di Trieste nel 1945.
E se a qualcuno il termine che ho usato di “occupazione” non piace lo sostituisca pure con “presenza” o “amministrazione” che la sostanza dei fatti non cambia se i fatti sono testimonianze dirette (quasi diari) vissute in quei momenti da un triestino qualsiasi. Si chiami egli Quarantotti Gambini o anche Silvio Rutteri o anche Enriquez.
Persone che c’erano e non hanno scritto ex post libri di storia, ma sono stati semplici raccoglitori di eventi che altri – gli storici – hanno avuto poi modo di (de)scrivere chiamandola “storia” (19).

Il tema dei 45 giorni del 1945 è tema scottante ancor oggi e figuriamoci come lo era nel 1951 quando il libro fu pubblicato da Mondadori. Lo era per la politica triestina e lo era ancor più per la politica nazionale ben consapevole di avere “quassù a Trieste” (20) un problemaccio difficile da risolvere. Ahh quanto meglio se Trieste fosse stata cancellata un pò di anni prima da qualche buon terremoto oppure da Attila, rude uomo che pare abbia disdegnato la piccola e povera Trieste per concentrarsi sulla ricca Aquileia. (Anche i poveri qualche volta sono fortunati).

Ma Trieste c’è, quassù o laggiù, nel cuore o meno degli italiani, con quel ponte che tanti pensano  la congiunga a Trento, con la piantina del FVG all’Expo di Milano che pone il confine della regione alle foci del Timavo, con la sua storia la cui intensità nessuna città italiana può vantare. E dentro questa città tanti uomini di cultura (città di mercanti e letterati – mi verrebbe da dire ) e la cui cultura spessissimo andava di pari passo con la politica.

Difficile dare a Quarantotti Gambini una precisa etichetta di colore politico. Così come per tanti – e lo stiamo vedendo in questi scritti – la cui onestà intellettuale non ha permesso loro di schierarsi solo da una parte, ma di vedere le ragioni degli uni e le ragioni degli altri. Un esempio ne sia la categoria dei tanti che non erano né pro né contro l’Austria e ciò non per mancanza di coraggio, ma perché consapevoli che una decisione ultima sia di un tipo sia dell’altro non avrebbe fatto il bene della città. Con il risultato di essere queste persone viste male dagli uni come dagli altri.
E Quarantotti Gambini aveva netta questa sensazione di essere uomo di “mezzo”. Un “italiano sbagliato” si autodefiniva.
Con tanti altri illustri triestini Quarantotti Gambini condivise l’essere considerato fascista e nello stesso tempo dai fascisti considerato antifascista, l’essere istriano vituperato nella sua terra e visto non italiano una volta qui giunto.
La perdita, proprio per ragioni politiche, del posto di direttore della Biblioteca Civica di Piazza Hortis nel 1946.
Dinamiche ben note e nelle quali ci siamo imbattuti di frequente in queste pagine.

I suoi romanzi (21) hanno ampia recensione – pur essendo uomo dimenticato – in internet e a lì rimando per chi ha voglia di approfondire elenchi.
A me bastava qui focalizzare alcuni punti che a mia opinione sono centrali nella figura di quest’uomo alto, sempre molto distinto, per molti anni abitante nella sontuosa villa Lazarovich di via Tigor , “rifugiatosi” a Venezia negli ultimi anni dove morì per infarto. Si dice dopo violenta discussione con un accanito fascista.
Un contrappasso in piena regola per uno che ha scritto “Primavera a Trieste” che tanti hanno giudicato non un libro di testimonianze, ma un libro fascista.

1910 – 1965
Busto opera dello scultore Nino Spagnoli

Nota 19
L’unica certezza per lo storiografo non è quella del “factum”, ma dello “scriptum” che lo testimonia. Noi non conosceremo mai i fatti nella loro essenza; potremo conoscere soltanto l’esistenza dei documenti e, almeno in parte, la loro natura.”
Quirino Principe, articolo “La città della cultura” inserito in “I giorni di Trieste” Ed. Laterza quale trasposizione in libro delle 8 Conferenze di Storia tenute al Teatro Verdi nel 2015

Nota 20
Quassù a Trieste” è il titolo del primo capitolo del libro “Queste mie strade” scritto da Libero Mazzi ed edito da Cappelli nel 1968. Ironicamente divertente l’inizio di questo capitolo che riporto a premio di chi è arrivato fin qui nella lettura.

A Como (metri duecentouno sul livello del mare) nel resoconto di un procedimento giudiziario l’inviato di un grande quotidiano milanese ha scritto:: “…lassù a Trieste ” (metri cinquantaquattro s.l.m.) E poichè anche in latitudine stiamo là e là, vien da pensare che con lo scorrere degli anni e l’impallidire di certi avvenimenti Trieste – non essendo situata sulle Alpi o in Groenlandia – abbia assunto per i più l’immagine comoda di qualcosa che lentamente, ma senza possibilità di invertire la marcia, stia viaggiando verso la Luna. Con qualcosa di lunare già dentro da tempo, e in un’orbita fuori della Galassia; un meteorite una volta di fuoco e oggi spento, che un bel giorno si scontrerà per puro accidente con un altro corpo celeste più grosso e pffhh… C’era una volta una città chiamata Trieste. Anzi un pianeta.”

Nota 21
Sorry ma non riesco a fare un copia-incolla da internet. Cito quelli che sono nella mia biblioteca.
Oltre al citato e fondamentale “Primavera a Trieste”
-“L’onda dell’Incrociatore” . Il titolo di questo romanzo fu consigliato a Quarantotti Gambini in una lettera del settembre 1945 da Saba che mentre camminava per Ponterosso ebbe l’idea che questo fosse il titolo giusto per questo libro. L’onda di un incrociatore è il simbolo tragico del disvelarsi della realtà, che travolge affetti, sogni ed inquietudini dei tre protagonisti in quella delicata fase del passaggio dall’ infanzia all’ adolescenza.

-“La Rosa rossa”. Umberto Saba che fu amico e prodigo di consigli in una sua lettera del 1937 a proposito di questo libro gli scriveva: “Non solo il carattere dei personaggi, ma tutti quei minuti particolari (il moscato rosa, il salottino giallo … omissis) ogni cosa respira il paese a te caro. Senza nulla di provinciale o di crepuscolare: il tuo attaccamento all’Istria non è un vezzo, una maniera per essere ironico a buon mercato: è amore”.

-“Le Redini bianche”.  Romanzo postumo ed autobiografico come parecchi libri di Quarantotti Gambini. Nel bambino Paolo di Semedella, protagonista del romanzo, non è difficile scorgere proprio l’autore.

Quarantotti Gambini è anche autore di poesie.

Non va dimenticato il lavoro di Mauro Covacich con la voluminosa raccolta in 1500 pagine di molti scritti di Quarantotti Gambini compreso il carteggio epistolare con Umberto Saba: “Opere scelte”uscito nel 2015, Ed. Bompiani.

 

La mia Trieste, 6 Marzo 2017