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Giardino Pubblico (IV) – i Busti 1

Colombi e cornacchie, nella loro piccola testa, pensano che quei busti siano stati messi lì nel Giardino per consentire loro una buona defecazione. E per ringraziare mostrano di usare molto spesso quei bronzei “cessi”. Ognuno ringrazia come sa e può.
Altri non ringraziano per nulla. Ringraziare in certi casi è ricordare, sapere.

“La me scusi, la savessi dirme chi che iera sto Rutteri?”
Basta vincere un po’ di timore (che poi a me manca del tutto) e chiedere. Chiedere non a qualche migrante, non a qualche ragazzino, non a qualcuno che fino a un momento prima era disteso su una panchina a dormire, ma a qualche mamma, qualche nonna, qualcuno che attraversa il giardino perché forse gli è comodo dall’ufficio per tornare a casa.
E non fare domande troppo difficili “chi iera Moissi, chi iera Kugy, chi iera Sinico” ma facili o supposte tali. “Chi iera sto Rutteri, chi iera sto Kandler, chi iera sto Benco”,”chi iera sto Muzio Tommasini”.

“No saveria”, “ mi proprio no go idea”, “ volentieri”, “non le saprei dare indicazioni precise”, “ma perché la me fa sta domanda”, “mi no abito in sta zona”.
Certo non tutti questi busti rammentano persone che hanno avuto fondamentale o comunque importante ruolo nella città, ma per buona parte sì.
E sapere cosa hanno fatto è un modo per ringraziare di avere noi oggi ricevuto in eredità una città meno peggiore di quella che sarebbe se non ci fossero stati.

Mi piace pensare che sia stato il caso a far sì che i busti siano collocati senza alcun ordine, così come per le rimembranze delle guerre nel loro parco sul colle di San Giusto.
Obbliga la mente di chi si sofferma davanti a loro con l’intento di ricordare, a fare uno sforzo per saltare da una parte all’altra della storia cittadina. E questo sforzo di cercare un ordine porta idealmente ad un altro sforzo, che sappiamo ciclopico, che è quello di capire Trieste con la sua complessità.
Quanto banale sarebbe poeti con poeti, irredentisti con irredentisti, politici con politici, romanzieri con romanzieri e poi varie ed eventuali.
Questo non-ordine come a  volerci suggerire l’idea che non esiste un punto di partenza definito, ma da qualsiasi parte si parta – come per il raggio di una ruota – si arriva al punto centrale.
Ma esiste un punto centrale per Trieste?
Probabilmente no e se c’è, per ognuno, è un punto diverso.

Forse sulla statistica ed i suoi numeri ci può essere una convergenza di idee.
Parto da lì, dunque. E la statistica dice che:
– i busti sono 31.

Ed ancora la statistica dice che:
– 12 sono gli scultori che hanno realizzato i 31 busti.
Precisamente:
– Spagnoli con 9 statue più quella nel laghetto (Bartoli, Benco, Barni, Letizia Fonda Savio, Kugy, Biagio Marin, Anita Pittoni, Quarantotti Gambini, Rutteri)
– Mayer con 7 statue  (Giuseppe Caprin, Cobolli, Svevo, Veruda, Pitteri, Rota, Sinico)
– Carà con 4 statue  (Besenghi, Moissi, Valentino Pittoni, Saba)
– Zumin con 3 statue  (Banelli, Timeus, Slataper)
e poi con 1 statua
– Rovan   (Stuparich)
– Depaul  ( Kandler)
– Barcaglia   (de Tommasini)
– Mascherini  (Joyce)
– Raca   (Kossovel)
– Asco    (Zampieri)
– Alberti   (Giotti)
– Ratmann   (Mayer)

Poche note per ognuno di questi 31. Magari stamparle ed un giorno di primavera, andare in Giardin Pubblico con questi 4 fogli e …

Muzio Giuseppe Spirito de’ Tommasini

Viene ricordato soprattutto come botanico più che per la carica di podestà ricoperta per 11 anni a partire dal 1850.
Ed è proprio alla fine del suo mandato politico che dedica energie all’Orto Botanico nato solo da qualche decennio, conferendogli tutta una serie di piante e semi della sua collezione improntata alla flora del Friuli e dell’Istria.
Grande studioso di botanica in una Trieste ricca di uomini importanti in questo settore come Marchesetti, Burton, Raimondo Tominz (figlio del pittore) , Bottacin, senza dimenticare un grande appassionato come Massimiliano d’Austria.
Giustamente a lui è dedicato il Giardino perchè sua fu l’idea e la realizzazione di questo progetto che fu molto più complessa di quanto si possa a prima vista pensare. Di questo faccio cenno nel “Giardino Pubblico – parte seconda”
Uomo che dunque seppe perseguire con determinazione questo obiettivo e questa innegabile determinazione forse contrasta con quella definizione di “Perfetto burocrate e suddito austriaco intus et in cute”, così come lo definisce Attilio Gentile (1) in un suo articolo sull’Archeografo Triestino del 1957-1958

1794-1879
Busto opera dello scultore milanese Donato Barcaglia

Nota 1
Attilio Gentile, professore di italiano, latino, greco e poi Preside di Licei. Opera a cavallo della prima guerra laureandosi a Vienna (in filosofia) e dopo la fine della guerra, a Padova, in lettere.
Studioso e collaboratore della Società di Minerva, direttore della Società Dante Alighieri e membro di varie associazioni culturali.
La certa fede “italiana” – vedasi l’appunto sul Tommasini – gli assicura continuità nell’insegnamento nei Licei anche dopo la fine della guerra quando l’Italia operò, specie nel comparto dell’insegnamento, numerose “epurazioni.”

Letizia Svevo Fonda Savio

L’unica figlia di Italo Svevo. Moglie del colonnello Antonio Fonda Savio (Savio è il nome da lui assunto quale partigiano),  irredentista, combattente nella prima guerra e coordinatore della resistenza italiana a Trieste quale capo del Comitato di Liberazione Nazionale contro i nazi- fascisti.
Persero i loro 3 figli nel corso della seconda guerra, due che dalla campagna di Russia non fecero ritorno ed il terzo morto nel corso della insurrezione di Trieste del maggio ‘45 contro le truppe di Tito.
Un lutto che Letizia Svevo Fonda Savio porterà dentro con molto dolore e molta dignità fino al giorno della sua morte a 96 anni.
Di lei Silva Bon (2) scrive “ha continuato a vivere con una missione che era soprattutto quella di celebrare la figura del padre e quella del marito in nome dei quali è vissuta e ha combattuto, ha lottato, si è esposta in primo piano fino alla fine della sua vita.”
Una vita di grande impegno politico e sociale.
Crocerossina, collaborazione con i partigiani, delegata nazionale nella Commissione di Ginevra per i dispersi in Russia, militanza per qualche anno tra i radicali, Presidente per la Lista “Del Melone”, cavalierato della Repubblica.
Ed ovviamente preziosissima curatrice della divulgazione e stampa di un enorme archivio di scritti del padre.
Il Museo Sveviano, con sede in via Madonna del Mare 13 presso la Biblioteca Civica, nasce dalla generosa donazione di Letizia Svevo Fonda Savio che affida il prezioso patrimonio di oggetti e carte di proprietà del padre alla Biblioteca Civica del Comune di Trieste

1987 – 1993
Busto opera dello scultore Nino Spagnoli

Nota 2
Letizia Svevo Fonda Savio, Biografia e carteggi” di Silva Bon, Ed. Società di Minerva, Extra serie n 12 dell’Archeografo Triestino

Anita Pittoni

Donna eclettica che ha saputo miscelare bene ricerca letteraria e lavoro manuale. Ambasciatrice della cultura triestina nel mondo. Questi i suoi grandi meriti.
Lo zio era Valentino Pittoni uno dei capi del socialismo triestino e deputato al Parlamento di Vienna.
Difficile solo accennare alle molteplici attività di Anita Pittoni nei decenni a cavallo della seconda guerra.
Al distacco dalla sua famiglia d’origine ha ospitalità e lavoro dalle sorelle Wulz titolari di uno dei più importanti atelier di fotografia della città.
Poi un laboratorio di sartoria che diventa il centro delle sue attività manuali.
Lavori che riguardano vestiti, costumi teatrali, arredamento, ricamo, tessiture su telai. Presto i suoi lavori – che spesso privilegiano materie prime poco usate, da quelle povere a altre molto raffinate – sono apprezzati in tutta Italia e nelle maggiori città europee.
Anita Pittoni espone all’estero con successo in varie mostre decorative e d’arte a Parigi, Buenos Aires, Berlino, New York

Anita Pittoni imprenditrice ma anche scrittrice di racconti e poesie, alcune in dialetto, promotrice di altri poeti e scrittori. Presto la sua casa di via Cassa di Risparmio 1 diventa cenacolo di artisti e letterati come Virgilio Giotti, Pier Antonio Quarantotti Gambini, Giulio Camber Barni, Giani Stuparich di cui sarà compagna per anni.
Fonda “Lo Zibaldone”, una casa editrice letteraria con lo scopo di dare visibilità agli emergenti, ma soprattutto di collegarsi agli intellettuali italiani ed europei.
Dunque vera ambasciatrice della cultura triestina nel mondo.
Sulla sua casa di via Cassa di Risparmio, il Comune ha messo una targa commemorativa riportando una frase significativa di Anita Pittoni: “la mia patria è il mio tavolo di lavoro”.

1901 – 1982
Busto opera dello scultore Nino Spagnoli

Giani Stuparich

Ha combattuto nella prima guerra mondiale, ma è un esempio chiarissimo di uomo contrario alla guerra perchè convinto delle possibilità della civile convivenza tra i popoli.
Ideali andati in fumo con l’avvicinarsi veloce del conflitto tanto è vero che lui, uomo pacifico, mentre era a Firenze dove aveva conseguito la laurea, allo scoppio della guerra si arruolò nell’esercito italiano.
Valoroso, ma sempre fortemente critico verso il dispotismo e l’inettitudine di gran parte degli ufficiali dell’esercito italiano e critico verso la guerra con i suoi orrori inutili di cui fu testimone in … prima linea. E dove perse il fratello Carlo.
Romanziere,  tanti suoi libri hanno come sfondo la guerra e i suoi drammi.
Di professione (quella per poter mangiare) professore al Liceo Dante.
Ma anche giornalista (ad es. per la Stampa di Torino, Il Tempo di Roma) e promotore di vari convegni letterari.
In questo senso anche lui ambasciatore della cultura triestina in Italia.

Silenziosamente contrario al fascismo finì anche in Risiera e si deve all’intervento del Vescovo Monsignor Santin se potè uscirne vivo.
Di lui, in una Trieste da dimenticare per i tanti odi, si mormorava fosse un “ebreo mimetizzato”. In una Trieste dove gli stessi nazisti si meravigliarono per le così tante delazioni.
Sulla sua iscrizione al partito fascista v’è una querelle perché sempre è stata data per esclusa (3), salvo in tempi recenti con la pubblicazione di un saggio su di lui dove l’autore dice di aver trovato i documenti che provano si fosse iscritto nel 1940 (4) .
Anche così fosse stato in un tentativo di tutelare fisicamente la sua persona, ebbe comunque il trauma della Risiera da cui uscì vivo solo per miracolo.

Lascio a Wikipedia l’elenco completo delle opere di Giani Stuparich.
A me piace qui ricordarne due che riportano alla terribile guerra. E poi una terza.

-“Guerra del ’15 (dal taccuino di un volontario)” E’ diario di 2 mesi del 1915. Una grande e triste compostezza nel narrare gli orrori della guerra e l’(incredibile) atteggiamento di diffidenza degli ufficiali italiani verso i volontari triestini.
-“Ritorneranno” Un romanzo a me caro che racconta di una famiglia dove i 3 figli passano il confine e si arruolano nell’esercito italiano e il padre, rimasto a Trieste, si trova nell’esercito austriaco. E le donne a casa ad attendere. Ritorneranno?
Caso non isolato chè anche la famiglia Brunner, così come tante altre, visse drammi e simili lacerazioni. (Sulle conseguenze di questi drammi faccio breve cenno nell’articolo “ L’ex Manicomio”).
-Ed infine mi piace ricordare “Trieste nei miei ricordi”, libro ahimé introvabile e che è come la conclusione di una vita. (anche se mancano in realtà 15 anni alla sua morte). Un libro che non dovrebbe mancare – per essere letto e ogni tanto riletto – in nessuna libreria di un qualsivoglia triestino.
Siamo alla fine del 1947 e la città privata di ogni identità per il susseguirsi di scenari sempre mutevoli e decisi da altri, vede davanti a sé il buio. E allora Giani Stuparich si getta nel passato dei ricordi, ma come egli scrive nella prefazione “
non come chi cerchi di consolarsi d’un passato felice, ma come uno che frughi in anni considerati perduti, per vedere se non fosse rimasto qualcosa di positivo, di cui far tesoro nella miseria e nell’avvilimento presenti”.

1891-1961
Busto opera dello scultore Ruggero Rovan

Nota 3
In calce alla edizione del 2004 per la Casa Editrice “Il Ramo d’Oro” si legge: “Durante il fascismo non partecipa ad alcuna manifestazione, rifiutando anche la tessera del partito”

Nota 4
Fulvio Senardi in “L’incancellabile diritto ad essere quello che siamo – La saggistica politico-civile di Giani Stuparich”, Edizioni Eut

Julius Kugy

Nato verso la metà dell’ 800. Radici austriache, triestine, slave. Grandissima passione per la montagna. Nel ’14 sceglie senza tentennamenti la causa austriaca e si arruola anche se ha 57 anni. Valoroso si merita molte medaglie. Alla fine della guerra è stanco, ha voglia di tornare alla sua impresa di commercio di caffè in Trieste messa su dal padre.
Ovviamente mal visto dalle autorità italiane deve smettere la sua attività e si dedica ai suoi studi letterari e soprattutto alle sue due grandi passioni: l’alpinismo e l’organo.
O forse più che alpinismo si può dire “montagna”. Il titolo di quello che si può considerare il suo libro più importante dice chiaramente i suoi interessi. “La mia vita nel lavoro, per la musica, sui monti”. (5)

L’alpinismo per Kugy è privo di ogni velleità di primati. E’ un alpinismo definito da molti romantico e dettato solo dall’amore per la montagna. Nel citato libro scrive: “I monti non devono essere i nostri nemici. La base dell’alpinismo deve esser sempre il puro amore della natura e dei monti …” “Non cercate nel monte un’impalcatura per arrampicare, cercate la sua anima.“
Dunque uomo innamorato della montagna da cui imparare per il bene prezioso della vita. (6)
I grandi risultati pratici di scalate memorabili arrivarono poi con un suo allievo, lo scalatore Emilio Comici, che, appunto, è rimasto ben più famoso di Kugy.

E poi la musica con il suo strumento preferito: l’organo. Ma l’organo non è come un pianoforte che si suona in casa. E qui un pezzo della sua vita come una storiella divertente.
Fu una fortuna che un mio vecchio compagno di studi, figlio del Pastore protestante fosse a Trieste…” così inizia a raccontare Kugy.
Grazie a questa conoscenza gli viene concesso di andare nella chiesa evangelica a esercitarsi. Impegno e doti personali lo portarono in breve ad essere molto bravo e ad essere dai fedeli richiesto nella chiesa per messe e cerimonie. Non ci vuole molto a capire che in questo modo ebbe vita breve in quella chiesa. L’invidia è un nemico che non perdona.
Buttato fuori, egli si rivolse al Vescovo, il quale “non mostrò alcuna comprensione per il fervido desiderio…. Potevo costruire un organo in una chiesa cattolica, il dono era accettato molto volentieri, ma doveva essere usato solo per fini religiosi”.
Condizioni inaccettabili. E il suo caro Bach? Abbandonarlo per sempre? Mai.
Disperato. Senza un organo e senza un posto dove suonarlo. Ma con una buona stella sopra di lui.

Racconta “Un caro amico mi trasse dall’impaccio. Abitava nell’ex convento dei mechitaristi, in via Giustinelli … L’amministratore della chiesa conventuale cattolico-armena (7) ivi esistente, mi mandava a dire che sarebbe venuto volentieri incontro ai miei desideri. Corsi lassù e appena entrato nella chiesa esclamai “o qui o mai più” … “Benvenuto” mi disse la chiesetta”.

L’accordo con la congregazione dei mechitaristi fu rapido e chiaro. Kugy si poteva procurare un organo, poteva suonarlo dalle 10 della mattina alle 22 e non c’erano vincoli su che musica doveva suonare. Alla sua morte l’organo sarebbe rimasto alla chiesa.
Felice di questa soluzione corse a Vienna a farsi costruire un organo.
E lì suonò fine alla fine dei suoi giorni senza problemi, salvo un vicino che per qualche tempo gli fece la guerra per … “rumori molesti”, ma Kugy fu irremovibile e il vicino pensò bene di traslocare.

Kugy, un concreto esempio della cultura multietnica triestina per il suo pari amore verso Austria, Italia, Slovenia.

1858 – 1944
Busto opera dello scultore Nino Spagnoli

Nota 5
Libro scritto nel 1931 mentre era a Monaco ed uscito con il titolo ancora più forte e chiaro “ Arbeit, Musik, Berge – Ein Leben” ossia “Lavoro, musica, monti – una Vita” . Ristampato nel 2011.

Nota 6
La nostra saggezza di fronte ai monti deve consistere nell’andar loro incontro e ritornare con un gaio sorriso sulle labbra: nel salire sui monti per vivere, non per morire. Nel loro immenso teatro c’è posto per commedie, per drammi e per impressionanti tragedie. E molto spesso la tragedia è vicinissima alla commedia, la risata vicinissima al pianto, alla disperazione, alle lacrime. Oggi l’alpinismo ha imboccato vie nuove, mai immaginate, alquanto audaci. Ma quanto più ci si allontana dallo spirito, dall’anima, che lo deve pur sempre permeare, quanto più si insiste sul mezzo  per giungere al fine, sul lato tecnico, materiale, quale fine a se stesso, tanto più mi sembra che si avvicini una svolta. Ogni esagerazione infatti sfocia infallibilmente, con le sue ultime conseguenze, nel discernimento e nella correzione. Non dobbiamo dimenticare che la morte in montagna non è sempre una fine eroica, ma assai spesso una grande stupidaggine e per le grandi mete indicateci dalla montagna non dimentichiamo quelle ben più grandi che la via ci impone. L’alpinismo inteso come va inteso dev’essere una scuola per la nostra vita che gli sta di sopra imperiosa. Sempre e qualunque sia la sua tonalità, l’alpinista sia veritiero, nobile e modesto.”

Nota 7
La chiesa dei Padri Mechitaristi esiste ancora in via Giustinelli che è la via che, salendo dalla più nota Tigor, si imbocca dopo aver salito la scala che è proprio in corrispondenza con la “casa dei mascheroni”. La chiesa è in completo abbandono perché i padri mechitaristi proprietari della chiesa e terreno contiguo, ritiratisi a Venezia, non hanno interesse a rimetterla in funzione. Il suo  campanile da molti anni è ingabbiato perché a rischio crolli.
Dal 2008 la Sopraintendenza alle Belle Arti ha posto un vincolo sulla chiesa sicché il pericolo di una sua distruzione e vendita del relativo terreno è scongiurato mentre il terreno alla sinistra della stessa è stato venduto dai padri mechitaristi ed è sorto un moderno complesso edilizio. Quanto le due cose una vicina all’altra stridano è evidente.
La chiesa è chiusa e abbandonata.
Ma cosa ne è del prezioso organo costruito dalla famosa ditta Rieger di Vienna??
Ho raccolto solo voci. Chi dice che sia stato smontato e portato via e chi dice che sia ancora lì in totale sfacelo.

Gianni Bartoli

Sindaco di Trieste negli anni ’50 e soprannominato“Giani lagrima” perchè sembra che gli fosse sfuggita qualche lacrima in occasione di celebrazioni pubbliche (insomma un precursore di tal ministro Fornero).
Bartoli era sindaco nel ’54 quando ci fu la riannessione di Trieste all’Italia e me lo ricordo quando aveva accolto Luigi Einaudi (un galantuomo di altri tempi) che era Presidente della Repubblica ed entrambi  erano sul poggiolo del Municipio con sotto la piazza gremita.
Viene spesso citato come il Sindaco della seconda redenzione di Trieste.

Democristiano e cattolico molto convinto. Dunque simpatico o antipatico a seconda delle idee politiche del giudicante.
Ma sulle sue spalle sono ricadute responsabilità che nessun altro sindaco ha dovuto sobbarcarsi dopo il ‘45. Il periodo più delicato dove le grandi potenze decidevano, ma in qualche modo Trieste doveva far sentire la sua voce. Ed anche a Roma dove non per tutti era pacifico che Trieste fosse italiana. La Francia all’estero e il PCI avevano ben altri obiettivi per Trieste che non la sua permanenza in Italia.
E dentro la città, inglesi, americani, polizia civile, proteste aspre e luttuose.
A sbagliare qualche mossa poteva essere un soffio.
Quanto la città deve alla saggezza di questo uomo politico!

Lo ricordo nelle passeggiate con mio nonno a Villa Revoltella dove aveva abitudine di soggiornare d’estate in quella graziosa villa ora in completo sfacelo.
Non solo lui ma tutti (?) i sindaci a portare avanti questa tradizione, che è anche un modo per essere più vicini fisicamente ai comuni mortali cittadini triestini. Il primo cittadino della città che per i week end o per qualche settimana estiva puoi incontrare a Villa Revoltella, un parco cittadino, come quello di Oslo dove abita il re di Norvegia e  che incontri mentre va a casa e tu sei nel parco a prendere il pallido sole.
Una scelta che individua un modo diverso da parte di un politico di porsi verso chi gli ha dato l’incarico di amministrare il bene comune.
Ma cosi non è più stato né sarà mai!
La villa cade a pezzi e il “palazzo”, anche di un sindaco di una cittadella come Trieste, resta lontano.
Gianni Bartoli in quella villa ci stava, lui e la sua numerosa famiglia. La moglie istriana assieme ai 4 figli.

Di origine istriane, esponente della Democrazia Cristiana ai tempi delle correnti e proprio per idee diverse dentro quel partito, la sua stella politica si spense. Erano i  tempi dei primi vagiti di centro-sinistra e Bartoli, un po’ anche per le sue origini istriane, è stato uomo poco incline ad aperture verso la sinistra.
Molto in sintonia con il vescovo Monsignor Santin, anche lui di origini istriane.
Finito il suo mandato egli ha ricoperto altre varie cariche di prestigio in Istituzioni Pubbliche cittadine.
In occasione dei 25 anni dalla morte il Comune l’ha voluto ricordare aggiungendo alla titolazione della via “capo di Piazza” quella di Gianni Bartoli. Dunque “Capo di Piazza Gianni Bartoli”.

Per la cerimonia dei 25 anni dalla morte venne a Trieste Giulio Andreotti, amico di Gianni Bartoli e dal suo discorso trascrivo: “Io non penso che Gianni Bartoli avrebbe accettato di essere giudicato con il metro della popolarità, dei consensi e degli entusiasmi suscitati. Sarebbe stato, invece, disposto ad affrontare il giudizio della storia per la sua opera di patriota onesto, per i risultati e gli obiettivi raggiunti in un momento storico tormentatissimo. E come Napoleone non poteva sopportare di avere ai suoi ordini generali sfortunati, così i triestini – in un momento tanto eccezionale per loro – non avrebbero potuto permettersi di avere un rassegnato amministratore della loro città. Ebbero dunque Gianni Bartoli, un grande italiano”

1900-1973
Busto opera dello scultore Nino Spagnoli

Carlo Banelli

Esponente di spicco dell’irredentismo giuliano. Prima dell’inizio del conflitto era a Udine a coordinare il gruppo dei triestini ed istriani che riuscivano a varcare i confini per non dover combattere sotto la bandiera austriaca bensì stare sotto quella italiana.
A guerra finita fu subito nelle file del nascente partito fascista e nelle elezioni amministrative del 1922 la sua lista “Alleanza Nazionale” (nome di partito usato anche di recente dalla destra) ottenne la vittoria.

1858 – 1938
Busto opera dello scultore Romano Zumin

Pietro Kandler

Nasce agli inizi dell’ ‘800 ed è importante ed emblematica figura di triestino impegnato su vari fronti nella sua città.
Per queste brevi note su di lui molto attingo dal tesoro di notizie che v’è nel più volte citato libro del Generini che portando la data del 1884 mi fornisce garanzia di una visione non lontana dai fatti che descrive.
A cominciare dal divertente particolare di come Pietro Kandler nacque a Trieste. Galeotta fu la tresca tra un suo antenato, semplice giardiniere di Corte a Vienna con una nobile del Palazzo. E fu così che, scoperto l’amoroso intrallazzo, Francesco Giuseppe esiliò l’ardito mandandolo a Trieste a fare la guardia nel Parco del Farneto che a quel tempo era proprietà della corona.

La fama che il giovanetto Pietro ebbe da subito fu di un ragazzo precocissimo nell’apprendimento di qualsiasi materia scolastica. E così non poteva  non essere se già a 5 anni leggeva correntemente e si divertiva anche a leggere speditamente le parole all’incontrario.
Laureatosi in legge fece alcuni anni nello studio del Rossetti e qui nacque un’ amicizia strettissima e una proficua collaborazione specie nella neonata Società di Minerva e per il successivo Archeografo Triestino.
Alla morte del Rossetti, oltre a portare avanti una serie di iniziative a lui care, ereditò anche l’incarico di Procuratore Civico.

In quegli anni caldi la sua posizione politica fu sempre molto precisa. Molta simpatia per il nuovo Regno d’Italia che si stava formando, ma era tuttavia convinto che l’Austria fosse assolutamente essenziale alla prosperità di Trieste ed anche convinto assertore dell’autonomia municipale della città.
Le sue idee, espresse anche in sedi ufficiali austriache, erano che l’Impero Asburgico dovesse, per avere successo, riconoscere le diversità etniche, culturali, religiose, linguistiche dei popoli facenti parte di questa multiforme entità. Idee che proprio in quegli anni sotto il regno di Francesco Giuseppe non erano per nulla in linea con il nuovo corso della politica austriaca.
Dunque una posizione, quella del Kandler, di grande equilibrio con in testa l’obiettivo della prosperità della sua città.

Il Rossetti si era appassionato agli studi sul Petrarca e sul Piccolomini per i loro riferimenti alle autonomie e agli Statuti locali e così avvenne con ancora maggior enfasi e quantità di studi con il Kandler che, comunque, non volle trincerarsi dentro i confini della città.
Membro della Imperiale Accademia di Vienna e, per pareggiare la partita, socio delle principali accademie scientifiche italiane.
In rapporti anche con Theodor Momsen. (8)

A Kandler si deve se tantissimi antichi documenti della città e dell’Istria sono arrivati ai giorni nostri consentendo di non brancolare nel buio nella costruzione della storia di quei secoli.
La sua produzione è vastissima. Il Generini parla di 26 volumi contenenti “carte, leggi, editti e pubblicazioni d’ogni genere, antiche e moderne, riguardanti il Comune di Trieste colle rispettive dissertazioni e commentari manoscritti”.
E poi ci sono moltissimi libri che qui è ridondante citare.
Ed anche l’appendice al preziosissimo libro di Vincenzo Scussa, storico del 1600, che scrisse un storia cronografica di Trieste che parte dagli inizi della città e arriva al 1691.
Questo preziosissimo manoscritto fu ripreso e pubblicato dal Kandler (9) avendovi egli aggiunto la storia dagli anni 1695 al 1848 nonché altri scritti.

Il suo impegno professionale e politico fu sempre accompagnato da grande passione per le scienze storiche. Collaboratore del Rossetti per l’Archeografo triestino (vedi la scheda sul Rossetti) la sua attività di studioso fu importante anche come raccoglitore di una quantità enorme di documenti storici di tutta la zona, Istria compresa, che altrimenti sarebbero andati persi per sempre ed autore di una pubblicistica vastissima.

Come nota divertente, dopo questo discorso serio, si può ricordare che collaborò ad una rivista letteraria scrivendo articoli con lo pseudonimo di Giusto Traiber. A questo punto mi viene da chiedere se proprio “traiber” oppure “bubez” (due perfetti sinonimi) giusta la divertentissima storia – una delle tante maldobrie – intitolata appunto “Traiber” in “L’Austria era un Paese ordinato” di Carpinteri&Faraguna.
A lui il Comune ha dedicato una via. (10)

1804 – 1872
Busto opera dello scultore Giovanni Da Paul

Nota 8
Grande storico. La sua opera sull’antica Roma è riconosciuta da tutti la più importante e completa

Nota 9
Libro edito nel 1863 ed ovviamente introvabile. Qui ho fotografato, dalla copia in mio possesso, il frontespizio del ponderosissimo libro, nonché il ringraziamento dell’editore al Podestà De Conti per avere concesso l’utilizzo degli scritti depositati presso l’Archivio Diplomatico del Comune

Nota 10
Guardavo la piantina della zona di via Giulia e mi è venuto da osservare una accurata sistemazione delle denominazioni delle vie. Certo, si sa, quasi sempre i poeti stanno con i poeti e i musicisti con i musicisti e questo in ogni città.
Qui il discorso è meno appariscente e proprio per questo degno di un paio di righe in questa nota.
Di traverso alla via Giulia e tutte in parallelo ci sono una serie di vie comprese tra la via Rossetti e la via Kandler.
Rossetti e Kandler che,  fuori da un contesto temporale,  sono come due padri della storiografia della città. In mezzo a queste due vie e tutte che puntano (o partono) dal Giardino Pubblico con il suo condensato di busti, ci sono alcuni ”oggetti” dei loro studi o preziose fonti. Enea Silvio Piccolomini, Ireneo della Croce (altro cronista del 1600 delle vicende triestine), Andrea Rapicio (vescovo nel 1500, giurista, politico impegnato a mediare tra filo-veneti e filo-austriaci), Vincenzo Scussa ed a chiudere, poco più, sopra la via Kandler

Giuseppe Caprin

Sulla stele che regge il busto si legge la sola parola  “scrittore”. Ma ridurre la figura di Giuseppe Caprin a solo scrittore sembra invero molto riduttivo.
Egli fu anche valente uomo d’affari passando da semplice tipografo a imprenditore con la sua stamperia sorta sul retro della sua casa al n. 7 della via che porta il suo nome e che dalla via Molino a Vento sale a San Giacomo. Molte energie dedicò a questa attività di stampatore e anche editore, salvo poi cedere l’attività perchè troppo assorbito da quella di studioso e storico (11)
Valente editore dei suoi e altri libri.
Storico. Accanto alla sua produzione di romanzi ci sono libri di spessore storico come “Tempi andati” , “Istria nobilissima” e la sua opera, forse la principale, “Il Trecento a Trieste”. (12)
Giornalista in alcune testate come l‟Indipendente” di cui divenne direttore. (13)
Sul giornale molti suoi articoli uscivano con la firma Y stante la posizione decisamente anti-austriaca che gli valse varie perquisizioni della polizia.
Combattente garibaldino e ferito nella tremenda battaglia di Bezzecca.
Impegno politico come irredentista e come tale socio o promotore di varie associazioni culturali sotto le quali si celavano gli obiettivi politici come la Lega Nazionale, la Pro Patria, La Società di Minerva.
Amico del Carducci, di Felice Cavallotti, di De Amicis, di Giacosa, di Giacinto Gallina ebbe anche ad ospitarli nella sua casa.

Uomo di grande impegno politico e sociale, quest’ultimo impegno con radici dentro le sue umili origini e simpatie verso idee socialiste. Di lui Sivio Benco dice “… fu un figlio del popolo ed un autodidatta, popolano anche quando ebbe l’ anima del gran signore ospitale.”
Cultore, appassionato d’arte e collezionista – come del resto quasi tutti gli uomini importanti dell’800 triestino – fece nella sua casa una stanza chiamata la “Stanza Veneta” cercando di ricreare l’atmosfera di una casa di qualche nobile veneziano al tempo dei dogi.
Questa stanza, o meglio gli arredi, si possono oggi ammirare nella Casa del Capitano del Castello di San Giusto

Chiudo queste poche righe sul Caprin con una nota personale che più non è che pura impressione. Che la città non abbia legato troppo con lui. Non penso a causa delle umili origini chè la città ha ben accolto sempre tutti. Forse per qualche posizione un po’ scontrosa per esempio verso Svevo – molto più rafforzata poi dal figlio Guido che, dalle autorevoli colonne del Corriere della Sera, stroncò la “Coscienza di Zeno” .
Ma forse più per le sue forti simpatie verso Venezia, una Venezia non dei nascenti moti rivoluzionari ed irredentisti (1848) quanto la vecchia Venezia, quella dei dogi, quella che tante sventure inferse a Trieste. Difficile dimenticarle tanto furono tremende. (14)

1843-1904
Busto opera dello scultore Giovanni Mayer

Nota 11
L’attività nacque nel 1868 in via Genova  per poi trasferirsi in alcuni locali del vicino Palazzo Carciotti
. Da lì in via Panfilo Castaldi per poi fare il definitivo passaggio nel retro della villa che il Caprin si fece costruire nel 1878 poco distante dalla piazza Puecher e dove fa ancora bella mostra di sè con il suo stile neorinascimentale La villa nel tempodopo la chiusura della stamperia nel 1931 – è stata sede di un gruppo fascista poi di un circolo comunista, poi sede della polizia civile, poi di una scuola interpreti, poi della Associazione De Banfield (assistenza ai malati di Alzheimer) ed ora di una scuola di musica

Nota 12
Oltre alla miriade di articoli si possono citare i suoi libri principali:

Marine istriane”, “I nostri nonni”, “ Tempi andati”, “ Lagune di Grado”, “Pianure friulane”, “Alpi Giulie”, ”Pagine di vita triestina dal 1800 al 1830”, “Il trecento a Trieste”,  “L’Istria nobilissima”

Nota 13
Senza ancora la radio e men che meno la TV, tutta l’informazione viaggiava sulla nascente editoria piena di testate. Non stupisca dunque leggere che il Caprin aperse o collaborò a tante testate come “Il Pulcinella”, “Il Pulcinella Politico”, “l’Arlecchino”, “il Cittadino”, “Libertà e Lavoro”, “il Progresso”, “l’Indipendente”

Nota 14
Lo storico istriano Kristian Knez a proposito del libro del Caprin “L’Istria nobilissima” scrive che le pagine del libro “sono contraddistinte dal culto della romanità e dalla rivalutazione della venezianità.”

Giuseppe Rota

Musicista e compositore. Così viene perlopiù raccontato Giuseppe Rota. Ed invero dopo gli studi con grandi maestri la sua carriera è piena di successi che lo portano in giro per l’Italia e in Francia… Quando è in Piemonte sarà in casa del Cavour e ricevuto da Vittorio Emanuele II.
Molto vicino alle idee risorgimentali,  sicchè molti dei suoi concerti sono a beneficio dei profughi e perseguitati politici. Molte le sue attività filantropiche. Fonda la Societa’ Filarmonica del Mutuo Soccorso.

Ma Giuseppe Rota viene ricordato anche per avere inventato un metodo per aiutare i sordomuti al recupero della parola attraverso la musica.
Trieste gli ha dedicato una via – tra la via Carducci e corso Saba – che è la più corta via della città

1836 – 1911
Busto opera dello scultore Giovanni Mayer

I busti sono 31. Qui in questo articolo alcune brevi note su 10 persone. Nei prossimi 2 articoli gli altri 21

La mia Trieste, 13 Febbraio 2017