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Museo Diego de Henriquez

Museo Henriquez
(o meglio: il mio Museo Henriquez)

Premessa
Non mi è chiaro. Più volte sono entrato, ma oggi non voglio uscire senza avere capito.
Sto entrando nel museo dedicato allo studioso e ricercatore Diego De Henriquez nato a Trieste nel 1909 e quivi morto assassinato nel 1974?
oppure
sto entrando in un museo di guerra ed in particolare delle guerre in cui nel ‘900 Trieste è stata coinvolta utilizzando alcuni contributi del suddetto Henriquez?
La scelta tra queste due opzioni condiziona pesantemente il tipo di museo.
Insomma un museo sull’uomo Henriquez e la sua collezione dietro la quale c’è una precisa filosofia. Sì, come potrebbe essere una personale di un pittore.
Oppure sulla Trieste del ‘900 in guerra?
In entrambi i casi tantissimo da dire.
Entrambi questi due musei più che legittimi.
Solo che a me – entrando – è gradito sapere in che museo sto entrando.
Seguimi e sarò la tua guida per questa visita, ma di parte, così come ogni guida lo è.
Onestà è saperlo e dirlo.

Il piacere della frescura venendo dal piazzale assolato della caserma Duca di Puglia, da tempo ex caserma, una di quelle di via Cumano, è avvertito appena entro al coperto dell’edificio che ospita il Museo.
Starò bene qui per un paio d’ore senza necessità del condizionatore della mia auto.
La frescura diventa però freddo una volta oltrepassato l’atrio ed entrato nella sala espositiva.
C’è una grande differenza tra frescura e freddo e non è solo questione di gradi del termometro.
Certo la guerra, che alla morte è collegata, è sempre fredda. Ce n’è stata una che addirittura si è chiamata proprio “guerra fredda”.
Dunque è giusta la sensazione di freddo che mi coglie appena metto piede tra quei primi grandi cannoni della sala ?
Non so se sia giusta o meno, ma l’avverto e l’ho sempre avvertita ogniqualvolta qui sono entrato.

Dovranno ancora sistemarlo” – mi ero detto le prime volte di cui una appena inaugurato il museo.
Ma ora alcuni anni sono passati e quindi oggi non posso più tirare la medesima conclusione anche se altri spazi in futuro saranno dedicati a questo museo.
Un museo che è conosciuto come il “Museo Henriquez” dovrebbe rendere omaggio a quella persona, al lavoro che ha svolto, un lavoro che si riconosce degno di essere condiviso da tanti.

Qui, in via Cumano, un vero omaggio a questo uomo che a prezzo di rischi enormi, al costo di una vita sacrificata e di una morte quasi annunciata, non c’è.
Un vero omaggio dovrebbe conferirgli il diritto di dire, anche dopo morto, qualcosa della sua collezione. E che lui avrebbe detto da vivo se i suoi appelli a fargli realizzare un museo fossero stati raccolti.
A tutte le porte possibili bussò per poter fare della sua immensa collezione un Museo. Alcuni dicono avesse mandato missiva persino al Presidente degli Stati Uniti.

Museo della guerra per la pace – Diego de Henriquez” – è l’intestazione che si legge entrando nel museo.
Molto facile che il visitatore entrato in un museo che parla di una guerra che riporta Trieste all’Italia e anche di una guerra che distrugge il nazismo, sia indotto a pensare – con quella intestazione – alla guerra come evento che viene scatenato per la pace, per avere cioè poi la pace, la “giusta e santa guerra” foriera poi di accordi di pace.
Indotto a pensare così invece che leggere quella intestazione di “museo della guerra per la pace” come una raccolta di “armi, materiale bellico di ogni genere per costruire un originale, debordante Museo DELLA Guerra che servisse tramite l’esposizione di tanti strumenti di morte ALLA pace” (1)
Questo era ciò che è legittimo pensare Henriquez avesse in mente.
Rispettare e valorizzare questo pensiero?
Forse difficile persino cogliere questo significato – che Claudio Magris definisce “debordante”.

Museo della guerra per la pace – Diego de Henriquez”  è l’intestazione che si legge entrando nel museo.
La guerra, le guerre. Forse di solo questo (o quasi) ci vuol parlare questo museo.
Anzi ne sono certo perché oggi – e solo oggi – ho notato quei pannelli che stanno sopra la mia testa nel breve corridoio che mi porta dall’ entrata alla grande sala espositiva:

La lotta tra il capitalismo britannico e quello tedesco per la conquista dei mercati mondiali”
Le contrastanti ambizioni coloniali delle potenze coloniali”
Una situazione fortemente conflittuale nella regione balcanica”
La Francia, la Gran Bretagna e la Russia si sentono reciprocamente minacciati da Germania, Austria- Ungheria”
La crescente influenza dell’industria bellica impone in Europa un clima di accentuato militarismo”
L’attentato di Sarajevo dà formalmente inizio alla Prima Guerra Mondiale”
Dunque è chiaro cosa mi vuole raccontare questo museo.

Dentro la grande sala giro e rigiro alla ricerca di un filo che mi possa portare da quelle macchine all’uomo che le ha raccolte e che a loro ha dedicato la vita. Ma il filo non lo trovo e allora resta solo il freddo che la mia mano avverte toccando, nonostante i divieti, quegli oggetti di ferro.
Pezzi lì per stupire con la loro grandezza.
Due obici, uno che sparava con la sua lunghissima canna proiettili di oltre 400 kg ad una distanza di 17 km; l’altro ad una distanza di 11 km.
Ed a fianco ad essi un altro cannone di cui manca – così come per altri 4 pezzi – il cartello di cosa sia.
Questa dunque la prima linea che accoglie il visitatore appena entrato.

E dietro altri grandi pezzi:
2 obici francesi più piccoli
2 enormi affusti di cannoni andati persi
1 ambulanza tirata da cavalli
1 autocarro dell’esercito italiano
1 autoblinda della prima guerra
2 cannoni, uno ancora della guerra italo-ottomana del 1911 e l’altro della seconda guerra, ma la cui gittata risulta essere di 21.800 m. nel cartello in italiano e 2180 m. nella traduzione in inglese
1 cannone tedesco situato all’esterno nel cortile stante la sua grandezza che aveva una gittata di 26 km

Nelle due ali laterali una serie di armi o oggetti ad uso bellico:
1 cucina da campo, 1 stufa per lavare/disinfettare, 6 tra mitragliatrici e piccoli cannoncini, numerosi bossoli, elmetti, 6 fucili, 4 pistole, 6 pugnali, alcune maschere, un paio di bombe a mano, 1 bici, 1 lanciafiamme, 10 piccoli lanciabombe, 1 piccola bomba di aereo, alcune giacche militari.
E qui termina la rassegna delle armi esposte in questo bianco hangar di caserma.

Davanti a tutto, prima degli obici più che giustamente, il Museo presenta il carro funebre che trasportò per le vie di Trieste la salma dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria-Ungheria assassinato a Sarajevo nel giugno del 1914.
Chissà come de Henriquez si è procurato questo carro scovandolo chissà dove, lui nato nel 1909. Una passione che sappiamo lo colse giovanissimo per mai abbandonarlo fino al fatale rogo del 2 maggio 1974 dentro la sua bara.
Un carro funebre per l’arciduca. Un carro – ma a questo punto uno dei tanti – per i funerali della pace.
Di questi tanti funerali ne abbiamo traccia al secondo piano con un lungo pannello con le date e i nomi delle guerre dal 1894 al 2014. Sono in numero di 56 e non solo 2 come si è spesso indotti a pensare.
In pochi centimetri quadrati un altro pannello racconta che secondo l’”Atlante delle Guerre”, alla data del 2014, i conflitti in corso sono 130.

Sì,  è proprio giusto iniziare il Museo con un carro funebre. Il funerale dell’arciduca Francesco Ferdinando come simbolo dei funerali della pace cui il museo della guerra è dedicato.
Così immagino io. Così spererei fosse evidente anche a chi arriva al museo perché ha letto sulla guida di Trieste, scaricata da internet, che una visita al Museo Henriquez vale la pena farla.
Pezzi che neppure vedo più per cannoni, mitragliatrici, pistole, elmetti, divise. Solo pezzi messi in bella mostra.
Ma forse così è quello che si deve fare. Il libro dei commenti all’uscita me lo conferma. Tutti molto positivi. L’aggettivo ricorrente è “interessante” intervallato da parecchi “molto interessante”.
TripAdvaisor conferma ampiamente.
Chi potrebbe non apprezzare quei pezzi così stupefacenti?
Mi fa piacere che sia così. Trieste lanciata sempre più a essere la città-non-turistica più visitata dai turisti.

Ma il mio commento è altro.
Allora uscendo ho immaginato il mio museo Henriquez.
Le fredde bianche pareti – che hanno il merito di avere preservato iscrizioni originali della caserma – coperte invece da pannelli scuri. Tanta meno luce, fari della marina militare non più a cercare di individuare i “maiali” della X Mas che nel buio della notte sono intenti a violare il porto dentro il quale si trovano navi militari nemiche, ma a più illuminare ora uno ora l’altro dei mille e mille e mille oggetti del museo perché no? quasi ammassati.
Un po’ come li ho visti io, tanti, su quel primo colle di San Vito sotto la pioggia e il sole cocente. (2)
La guerra è buia, le centrali elettriche sono i primi bersagli. Da piccolo – e la guerra era da poco finita – alla sera spesso un paio di lumi a petrolio (che gelosamente conservo) rimpiazzavano con inevitabile fatica e scarso rendimento la corrente anche per ore.
Il buio delle trincee.
A Hiroshima la notte del 6 agosto 1945 c’era luce? E i giorni seguenti?
E a Trieste negli ultimi anni del secondo conflitto c’erano forse illuminazioni di strade o luci che trapelassero dalle finestre delle case oppure tutto era buio per non facilitare agli aerei nemici possibili incursioni?
Tanta luce in meno nel mio Museo dedicato alla pace osservando la guerra.

Percorso difficile dentro al mio Museo. Una infinità di armi di tutti i tipi, piccole e grandi, nonché oggetti collegati alla guerra. Il tanto. L’abbondanza.
Sì perché mai se non in tempo di guerra convivono carestia, quella della gente comune che deve mangiare, e l’abbondanza, quella legata alla produzione delle armi e ai loro produttori. L’industria bellica che lavora in 24/365  (ossia 24 ore al giorno per 365 gg l’anno) .
Di questo buio e di questa abbondanza io vestirei il Museo anziché del bianco e dell’essenziale.

Henriquez ha lasciato una quantità immensa di oggetti e documenti raccolta in una vita dedicata al mestiere di “raccoglitore”
Io nel mio museo, qui in questa ex caserma, ci metterei (sarebbe più giusto dire “ci ficcherei” , ci incastrerei) altri pezzi grandi come il sottomarino del comandante della X Mas Valerio Borghese, il treno su strada (almeno una delle 8 carrozze) , il sistema di puntamento della corazzata Cavour da lui recuperato incurante del pericolo mentre la nave affondava, il cingolato tedesco che per primo entrò a Trieste. Ci sarebbe ancora altro di estremamente interessante, ma mi fermo qui.

Sì, ora il mio museo è sufficientemente pieno.
Della enorme collezione molto è andato disperso per incuria, molto rubato, molto sottratto nel corso di tanti anni di attesa, traslochi e scuse di mancanza di fondi prima di dare una casa a questi oggetti e rendere omaggio allo studioso Diego de Henriquez con un museo di cui tutti, a parole, erano convinti assertori già nel 1974, appena Lui morto.
Chissà, forse, mi piace pensarlo, questa idea di museo più si avvicinerebbe a quello che Lui poteva volere.
Non l’avrebbe privato del piacere di vedere le sue creature – in questo caso non poche ma molte – in un posto sicuro, al caldo e non al freddo o riversando freddo su chi le guarda, senza biancori, senza ricerca del voler stupire.

Chi entra entra. Ed è lui – il visitatore –  che deve adeguarsi al difficile percorso e non il museo alla sua comodità.
L’onestà è quella di presentare la guerra per quella che è. Buia e contorta. Molte ombre che si notano perché ci sono delle luci a crearle come quei fari che fanno luce ora qui e ora lì sulle macchine della guerra nel mio museo. Luci di eroismi e sacrifici che ogni guerra ha.
L’onestà è quella di presentare la guerra per quello che è: piena. Una casa distrutta porta via molto più spazio di una casa in piedi. Un campo con sopra una batteria contraerea è più pieno di quando ci sono mucche o pecore.
Una trincea è un formicaio. In un rifugio antiaereo di una galleria si sta ammassati come io non ricordo perché troppo piccolo, ma mia madre raccontava.
La guerra ha spazi pieni e disordinati. Solo la partenza delle truppe è ordinata tra ali di folla ordinata e plaudente. Il resto è caos.

L’onestà è quella di rendere omaggio non solo formale – “Museo della guerra per la pace. Diego de Henriquez” – ma sostanziale all’uomo così come era. Con le sue luci e le sue ombre che si interscambiano a seconda di chi le osserva e come fari della marina militare che girano a cercare cosa c’è da scovare. Nel mare ieri. Nel mio museo oggi.
Unica cosa certa: la sua incrollabile passione. Una passione che ha trasformato vecchi ferri che nessuno voleva più tra i piedi in testimoni silenziosamente parlanti di cosa è realmente la guerra.

Sì, ora, mentre sono seduto per terra con la schiena appoggiata al muro e guardo senza fretta, vedo cosa sta dietro a quei pezzi di ferro e che muovendoli li fanno parlare: la fatica.
Migliaia di persone attorno a centinaia di cannoni, obici, mortai, carri armati. Tonnellate di ferro da far muovere. Bombe da introdurre che pesano quintali.
Guidare l’ambulanza, schivando i morti per raccattare i vivi o quasi vivi.
La roulette russa di guidare un’autoblinda bersaglio facile da colpire.
Il camion con il telone che va per strade sterrate e lì, di continuo, s’infossa.
La mitragliatrice in braccio marciando con il pesante zaino sulle spalle. E talvolta con la divisa zuppa d’acqua.

 

C’è una foto nel museo che da sola vale tutto il biglietto. Racconta, con quei soldati (una settantina) in piedi come su un asse di equilibrio sul cannone e sul treno che tale cannone trasporta, di quanto forte sia in guerra la simbiosi tra l’uomo e quegli oggetti che per vivere e dare la morte hanno bisogno della fatica umana. La fatica per riuscire a tornare a casa grazie al lavoro di quei cannoni, mitragliatrici, mortai, fucili che uccidono e uccidendo fanno vivere se stessi. Meglio sarebbe dire: sopravvivere. Il vecchio mors tua, vita mea di antica memoria e che nella filosofia di Henriquez diventa un circolo vizioso. (3)
L’ho ri-fotografata questa foto che da sola vale tutto il biglietto.

Primo Piano

 

La grande scritta sul muro appena varcata la porta del piano superiore dice:
“1914 – 1954 Trieste in guerra”

Ora è tutto chiaro senza possibilità di errore. Questo è il museo che racconta le guerre del ‘900, in special modo a Trieste e Diego de Henriquez aiuta (solo) a raccontarle.
E’ giusto sapere in che museo si entra.

Una serie di pannelli suddividono gli spazi e vanno a raccontare gli eventi di guerra e le loro ripercussioni su Trieste tra quelle due date del 1914 e 1954.
Pannelli che descrivono gli eventi bellici intervallati da foto, da oggetti come berretti, divise, tessere per la distribuzione di generi alimentari e da manifesti dell’epoca.
Riporto i capitoli di questo libro di storia così come sono incollati sulle pareti del museo, al primo piano:
– 1913 Ultimo anno di pace
– 26 luglio 1914
– 23 maggio 1915
– Vita di guerra
– 3 novembre 1918
– Trieste in camicia nera
– 1939 – 1945 – Trieste in guerra
– Seconda guerra mondiale
– Bombe su Trieste
– Occupazione nazista
– 1 maggio 1945
– Dal Governo militare alleato all’Italia

Molto curata la raccolta di manifesti che danno un segno vero della vita dei civili in quei momenti.
Impossibile citarli tutti. Tra gli altri:
– Notizie dal fronte
– Pane e benessere (organizzazione Todt)
– Non vi siete ancora arruolati nella Difesa Nazionale
– Comando militare tedesco. Bando alla popolazione italiana
– Sabotatori italiani sono all’opera
– Sloveni del litorale !
– Comitato delle signore
Ed altri. Tutti da leggere nella loro arcaica prosa densa di retorica.

Tutti questi pannelli, manifesti, oggetti vanno a formare con molto ordine quattro partizioni in cui è suddivisa nel museo la storia della guerra del ‘900 a Trieste
1 – 1914 / 1918 Trieste in guerra
2 – Trieste in camicia nera
3 – 1939 / 1945 Trieste in guerra
4 – Dal Governo militare alleato all’Italia

Ma non dubitare c’è anche la quinta parte di cui dirò dopo

Un oggetto nella prima partizione è di particolare valore storico. Uno di quei colpi alla … Henriquez.
E’ la testa in bronzo della statua dedicata alla principessa Sissi che c’era nella piazza Libertà antistante la Stazione ferroviaria. Statua smontata alla fine della prima guerra, messa in un magazzino del Comune dove uno zelante funzionario pensò bene di distruggere quel retaggio dell’austriaco passato. A salvarsi fu solo la testa e a Diego de Henriquez il merito di questo ritrovamento (4)

E poi …
Passa quasi inosservata una teca con 5 quadernetti scritti a mano. Esprimono forse ancor più che la sua raccolta di oggetti bellici “chi” era l’uomo Diego de Henriquez.
Uno storico nel senso autentico del termine (5) .
Un raccoglitore delle res gestae ossia dei fatti accaduti attraverso tutte le possibili fonti senza alcuna distinzione.
Raccoglie testimonianze (con tutto i pregi e difetti di questo tipo di fonte), narra fatti di cui è stato partecipe, raccoglie documenti, disegni, disegna lui stesso oggetti e luoghi visti, riporta ogni particolare che in qualche modo, anche vago, possa avere attinenza con i fatti della guerra e della pace. E fotografa tantissimo.
Raccoglie tutto. Un “tutto” senza porsi domande e soprattutto non scegliendo cosa raccogliere e cosa no.
Come un archeologo che tira su tutti i pezzi che trova nei suoi scavi, anche i più piccoli, li mette nel sacco con un numero e la posizione senza porsi domande. L’imbrunire arriva presto e poi c’è sempre il timore che qualche “tombarolo” in agguato, nottetempo, sottragga qualcosa dal campo dove scavando emergono resti del passato. Talvolta anche resti scottanti.(6)

Raccogliere, raccogliere, raccogliere.

E così sono nati i suoi diari (7) di cui qui, al museo, 5 esposti.
In tanti musei, anche non importanti e persino nelle grotte di Postumia, molte teche dispongono di un pulsante che accende una luce per x minuti o secondi.
Consente al visitatore di vedere bene e di non danneggiare ciò che è esposto con la luce sempre accesa.
E qui ??
Una teca come  un invito dantesco del “ non ti curar … ma guarda e passa”

I suoi diari.
Anche la Risiera prende forma da questo lavoro di raccoglitore certosino.
E forse proprio questi diari l’hanno bruciato mentre dormiva nella bara che fungeva da letto.
E’ certo che in quella notte tragica del 2 maggio 1974 in via San Maurizio dove aveva il suo magazzino alcuni di questi diari siano spariti. Non bruciati, ma spariti.
A raccogliere si può tirar su di tutto. Cose di poco conto, ma anche ciò che era meglio restasse sepolto e dimenticato. Ad aprire armadi con dentro scheletri si rischia che il proprio letto prenda fuoco.

Già … il museo, siamo al secondo piano, verso la fine della prima delle due sale.
Ecco la quinta e ultima partizione:

5 – De Henriquez e il suo museo
Dunque nel museo de Henriquez si parla anche di lui.
In breve e in pochissimo spazio troviamo 2 pannelli. Uno sulla sua vita ed uno su Henriquez soldato e collezionista, alcuni oggetti e alcune foto tra cui una gigantografia di Diego de Henriquez in divisa ed un’altra che, anche quella, – assieme alla foto dei soldati in fila sul cannone di cui prima dicevo – vale da sola la visita al Museo. E’ la foto dell’ingresso del suo spazio museale ( ? ) sotto le stelle, ricavato su un terreno a San Vito negli anni ‘60 prima di trasmigrare, sempre sotto le stelle, sul Carso (8). In questa foto un bambino piccolo, una ragazza e 2 cartelli scritti malamente a mano:
Centro – internazionale
Abolizione delle Guerre
Fratellanza universale
Museo de Henriquez

con sotto un altro cartello:

Guerra = morte
Pace = vita

La ragazza con il dito indica il primo cartello che sta in alto e il bambino indica il secondo che è alla sua altezza.

In due foto tutto il Museo: gli uomini sul cannone a parlarci di armi e degli uomini in guerra (il Museo del pianterreno) e due cartelli appesi su un cancello a dirci cosa Henriquez pensasse degli oggetti che collezionava (il Museo del primo piano)

La visita non termina qui. Un breve corridoio e siamo nella seconda sala del piano superiore. Sul muro un piccolo cartello dice:
Curiosando tra libri, documenti, e oggetti delle collezioni de Henriquez”
Curiosare ?
Un museo espone.
Leggendo il sito del Comune di Trieste trattasi di una mostra temporanea, ma ciò non si deduce dal cartello esposto che non parla di temporaneità né di date. Nè quali sono state le precedenti né quando inizierà la prossima e con che contenuti.
Sembra dunque una parte fissa del Museo come è tutto il resto.
Dodici teche con una esposizione di oggetti e documenti, senza un qualsiasi nesso tra di loro, ma che comunque danno bene l’idea della eterogeneità della sua collezione.
In questa sala, la tanta luce del piano terra sembra rimasta tutta lì sotto mentre qui, dove servirebbe per apprezzare libri, documenti, oggetti è  scarsa.
Con una certa fatica il mio “curiosare” si concretizza in una collezione di disegni di Albert Robida, artista francese vissuto a cavallo dell’800-’900, un copricapo di re Vittorio Emanuele II di Savoia, ricette e consigli domestici di una certa Elsa Galla da Graz che come nome nulla mi dice, lavori della scultrice Fiore de Henriquez, sorella di Diego. Ci sono oggetti giapponesi ed altro ancora, ma la cui visione mi rimane difficoltosa per la scarsa luce.

Dunque della grande collezione Henriquez il Museo presenta una piccolissima parte di ciò che egli ha raccolto grazie alla sua passione di collezionista che spazia nei secoli e grazie al fatto di aver vissuto in un periodo storico denso di eventi, specie per Trieste.
Vivendo in un
contesto difficile, ma del quale sembra che egli non ne abbia avuto contezza tanto la passione lo animava. Una passione che finiva per anestetizzare i suoi interlocutori che di solito erano uomini di guerra e particolarmente duri e spietati.
Ma pare che di fronte a lui tutti si chetassero per dargli ascolto e supporto.
(9)
Per lui nessun problema a entrare nei comandi militari dei nazisti, dei partigiani, degli anglo-americani, dei titini. Avere informazioni per i suoi studi e in molti casi anche il permesso di fotografare.
Addirittura – come vediamo in una teca – formali elogi per il suo lavoro da parte dei vari comandi militari.
Spesso usato per traduzioni e per fare da staffetta di comunicazioni. O addirittura intermediario.
Un lavoro senza bandiera e per questo leale, da uomo super partes e tale ritenuto.
Compensi per questo lavoro? Certo non erano lavori che faceva gratuitamente, ma si faceva pagare in natura: soprattutto divise e bandiere.
Il pezzo più prezioso guadagnato in questo modo la giacca del comandante nazista, generale Linkenbach, che egli convinse nel castelletto Geiringer ad arrendersi agli anglo-americani. I maligni dissero che fosse stato così convincente solo perché voleva la giacca del generale.
Qui termina il viaggio dentro il museo e ritorno sui miei passi.

Pensando. Pensando che nel mio museo non andrebbe inserito Henriquez nella guerra, ma la guerra dentro Henriquez. Ossia come egli ha percepito il fenomeno della guerra.
Questo poteva essere l’obiettivo di un  museo a lui intitolato.

Si tratta di scegliere. Qui con la prima soluzione si è scelto di parlare della guerra e metterci in mezzo Henriquez come uno dei testimoni di queste guerre.
Ma lui non ha voluto essere testimone bensì interprete, a suo modo, della guerra. Raccontarle le guerre, in generale,  non a parole, ma con i fatti. Quelle res gestae di cui prima.
Raccontarle con tutte le armi trovate e che  sono il modo di esprimersi delle guerre.

Già, ma quali guerre ?
Già, ma quali armi ?
Quelle relative alle due guerre mondiali così come il museo ci propone?
No. Assolutamente no.
Henriquez si è interessato alle armi e oggetti di tutte le guerre a cominciare dalla preistoria.

Lui stesso giovanissimo, scavando in Carso e riportando alla luce armi di alcuni secoli avanti Cristo.  Acquisendo alla sua collezione un ariete romano, armature etrusche, armature romane, la doppietta di proprietà di Papa Leone XIII, il fucile sperimentale a 8 canne usato da Luigi XIV, una colubrina genovese e poi stemmi, armi bianche e così avanti con un elenco lunghissimo che qui non è il caso di riportare salvo con sintesi numerica in nota. (10)
Diego de Henriquez: una vita spesa per rendere al mondo la testimonianza di tutti i mezzi di morte impiegati dall’umanità dal periodo neolitico alla seconda guerra mondiale: la testimonianza, sia pure negativa, di una civiltà attraverso la quale lui intendeva ribadire la sua convinzione: bando alle armi e abolizione dei conflitti armati. Un impegno morale e civile profuso a piene mani” (11)

L’uomo Henriquez che esce dal Museo oggi a lui intitolato è un Henriquez particolarmente monco e per chi qualcosa su di lui ha letto, quasi irriconoscibile.

Oltre alle armi ha collezionato, con un eclettismo proprio del personaggio, tutto ciò che ha potuto. Da un carro funebre per funerali di bambini recuperato nella galleria ex rifugio di viale D’Annunzio, a cartine per sigarette (lui fervente anti fumo), alla piccola nave di Marconi, a piloni di ponti girevoli del canale, al basamento dell’arco del ponte granaio del Silos a …
Un inventario con 1 milione di voci.
(12)
Complessivamente una collezione valutata dalla Guardia di Finanza agli inizi anni ‘70 in 6 / 7 miliardi di lire (13). Da altri stimata in 30 miliardi di lire.

Se sei arrivato sin qui nella lettura un grazie per avermi scelto come guida per questa visita al “Museo della guerra per la pace – Diego de Henriquez”. Come hai visto … una guida molto onesta nel dichiarare già nelle prime righe di questo articolo che sarebbe stata guida di parte.
Poco ho raccontato del Museo, molto delle mie idee. Mi sono addirittura costruito un mio Museo.
A tutti un invito ad andarci ed a pensare né con la testa del curatore del museo né con la mia, ma solo con la propria.
A pensare, indipendentemente dalle lacune del museo, al lavoro ciclopico di vero storico svolto dal prof. Diego de Henriquez, un uomo che ha sacrificato una vita per un ideale.
Uno scopo di vita che possiamo dedurre dal titolo che lui voleva dare al suo Museo:

Centro internazionale abolizione guerre e per la fratellanza universale e per l’abolizione del male e della morte dal passato e dal futuro, a mezzo dell’invenzione del tempo quale conseguenza dello svincolamento dallo spazio-tempo”.

Nota 1
dall’ultima pagina del libro di Claudio Magris, “Non luogo a procedere”, Garzanti editore. Nel testo dell’autore il “DELLA” e “ALLA” non sono in lettere maiuscole

Nota 2
Il primo spazio per i suoi cimeli Henriquez lo trova a San Pietro del Carso dove aveva prestato servizio militare (vicino Postumia), ma verso la fine della guerra reputando che il posto fosse divenuto troppo rischioso lo sposta a Trieste trovando ospitalità alla villa Basevi, villa che sarà danneggiata da un bombardamento.
Agli inizi anni ‘50 e fino al 1970 lo spazio utilizzato era un terreno sul colle di San Vito.
Lì un giorno entrai per pochi minuti agli inizi anni ‘60 incuriosito dalla ferraglia che si intuiva passando dalla strada, senza però comprendere il valore di ciò che stavo vedendo. Occasione perduta come solo i ragazzi son capaci di fare.

Nota 3
Il bellissimo lavoro che va all’essenziale con grande capacità di sintesi della dott.ssa Antonella Cosenzi (responsabile dei Civici Musei Henriquez e Risorgimento; servizio Museo Revoltella e Civici Musei) sulla vita di Henriquez, in documento pdf in internet, riporta alcuni suoi versi:

dammi la tua spada, amico
la custodirò per te
non combattere
soltanto con amore conquisterai la pace”

Nota 4
Si fa cenno a questa statua nell’articolo “Piazza Libertà”

Nota 5
Il prof. Quirino Principe nella sua conferenza al Teatro Verdi per il ciclo “I giorni di Trieste” svoltosi a fine 2013 ed inizio 2014.
Egli giustamente rammenta che il termine latino Historia non va tradotto come storia, ma come storiografia.
La storia come la intendiamo noi sono le res gestae ossia gli eventi raccolti senza entrare nel merito.
Una volta raccolte le res gestae la storiografia farà il suo lavoro.

Nota 6
Lotta contro il tempo anche per Henriquez nel suo lavoro nella Risiera nell’estate del ‘45.

L’avevano lasciato prendere i suoi appunti – racconta in un’intervista la moglie dopo la misteriosa morte del professore – perché i responsabili del tempo, il governo militare alleato di Trieste, vedeva in lui uno studioso. Poi però qualcuno ci deve avere ripensato. Doveva essere la fine di luglio o i primi giorni di agosto 1945, mio marito è rimasto nella Risiera tre giorni di seguito. Lavorava anche di notte a lume di candela. Si concedeva soltanto pochi momenti di riposo per dormire. E non posso dimenticare il suo rammarico, la sua delusione quando è tornato a casa dopo tre giorni.  “Adele – mi ha detto – hanno cancellato tutto quello che era scritto sui muri. Quando mi sono svegliato stamani ho trovato una squadra di imbianchini che ha ricoperto tutto con strati di calce. Non ho potuto portare a termine il mio lavoro. Chi lo sa perché lo hanno fatto”
Così su “moked/tpm”, portale dell’ebraismo italiano.

Nota 7
Circa 280 o 300 quaderni scritti fittamente. Chiamati “Diari”. Lì Henriquez annotava tutto senza alcun ordine. Appunto diari.
Quelli oggi esistenti sono 280,  ma molti mancano all’appello perché già Henriquez parlava di 300.
Il PM presso il Tribunale di Venezia Carlo Mastelloni (oggi Procuratore Capo al Tribunale di Trieste) aprì un’inchiesta denominata Argo 16 (un aereo militare in missione segreta caduto per cause oscure nel 1974. Aereo che qualche settimana prima aveva riconsegnato alla Palestina dei loro prigionieri e ciò in base ad accordi segreti stipulati da Aldo Moro, ministro degli esteri del Governo italiano, con l’OLP di Arafat. Accordo che aveva fatto infuriare Israele).
Il PM Mastelloni nel corso della sua difficilissima inchiesta veneziana contraddistinta da numerosi “segreti di stato” opposti dal Governo consultò anche i diari di Henriquez e sembra che questi fossero 354. Si era a metà anni ‘80.
Ai diari si devono aggiungere circa 1 milione di schede tematiche.
Sono una fonte preziosissima per chi vuole capire Trieste durante la guerra e fino alla sua morte avvenuta come tutti sanno ed in un periodo contraddistinto da attentati e stragi dove i servizi segreti e corpi c.d. deviati hanno avuto grande ruolo come nei decenni successivi è apparso a tutti chiaro.
I diari sono conservati presso i Civici Musei di Trieste.

Un lavoro interessantissimo su questi diari – ma purtroppo parziale stante la vastità del materiale – è stato fatto dal colonnello Vincenzo Cerceo mentre nell’Archeografo Triestino della Società di Minerva, anno 2010, numero LXX / 2 vi è un articolo “Trieste 1941 – 1945 nei diari di Henriquez” del giornalista Guido Botteri, morto nel 2016, padre della reporter Giovanna Botteri, uomo molto influente specie nei decenni d’oro della DC in Trieste.

Nota 8
Percorrendo la statale 202 in direzione Basovizza, all’altezza di Trebiciano, volgendo lo sguardo a destra, sul crinale, era visibile il terreno dove erano stati collocati i pezzi di grandi dimensioni della sua collezione.

Nota 9
Mi ha colpito una foto riportata nel lavoro di cui alla nota 3)  dove si vede transitare nel maggio 1946 per Barcola una colonna di mezzi messi a disposizione dagli americani che trasporta con l’ausilio di soldati tedeschi prigionieri il famoso cannone atomico e altri oggetti bellici destinati al suo museo.

Nota 10
15.000 oggetti inventariati, di cui 2800 armi, 24.000 fotografie, 287 diari (38.000 pagine), 12.000 libri, 2600 tra manifesti e volantini, 500 stampe, 470 carte geografiche e topografiche, 30 fondi archivistici, 290 documenti musicali, 150 quadri e un fondo di pellicole (250 documenti cinematografici conservati all’Istituto Luce di Roma).

Nota 11
Il Piccolo, 4 maggio 1974

Nota 12
Il Piccolo 16 maggio 1974

Nota 13
Il Piccolo, 4 maggio 1974

 

 

La mia Trieste, 28 Maggio 2017