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Piazza San Giovanni a Trieste

Piazza San Giovanni è essenzialmente una statua, due negozi, un palazzo che per i non giovani riporta alla Democrazia Cristiana e ai risultati elettorali prima della invenzione/diffusione della televisione.
Dunque la statua, quella a Verdi, i negozi drogheria Toso e Cooperative Operaie di fu memoria, il palazzo Diana con sotto la farmacia e la sede dal 1948 della Democrazia Cristiana che in occasione delle elezioni esponeva un grande pannello dove venivano messi i risultati man mano che arrivavano da Roma. E tutti, mio padre compreso, lì sotto in nervosa attesa. Non mio nonno materno (di cui doveroso cenno nella prefazione al sito) che forse fu precursore dei non-voto.
Questa è la piazza, assieme al flusso di persone che si travasano dall’Acquedotto verso Ponterosso, verso il Corso, verso piazza Unità. E viceversa.
Certo è anche altro di cui dopo qualche cenno.

Piazza San Giovanni in centro a Trieste e non a San Giovanni come Campo San Giacomo è a San Giacomo.
Così si è chiamata a più riprese questa piazza di centro da quando la piccola città, ingrandendosi, pose qui un corpo di guardia; “si era al confine estremo della parte urbana, perché da qui si apriva il quartiere di San Giovanni” (1).
Mi riesce difficile – nonostante la stima per il prof. Rutteri – prendere alla lettera le sue parole. L’abitato di San Giovanni era lontano, specie per quei tempi, ed in mezzo solo campi, boscaglia, ruscelli, i verdi possedimenti delle monache dove poi sorse il giardino pubblico. Dunque più che confine con il quartiere di San Giovanni il nome può essere stato messo per indicare che lì iniziava la strada con conduceva a questo sobborgo rurale.
Altrove si dice che il nome deriva dall’acquedotto di San Giovanni che da lì passava per arrivare verso piazza Unità. Fatico a pensare che questa possa essere la spiegazione.
L’acquedotto è da sempre conosciuto con il suo nome di “acquedotto teresiano” e che ha origine al Capofonte.
Forse qui anche troppe parole spese per risalire alle origini di un nome che tale è. O se vogliamo essere precisi, era, poi in epoca fascista mutò in piazza Caduti Fascisti per ritornare infine al nome originario nel 1946.
Ma piazza nominata anche Imbriani e anche Verdi,  così come si legge su vecchie cartoline di fine ‘800 e inizi ‘900.
Nomi che mutano e un monumento – quello a Giuseppe Verdi, lì al centro della piazza – che con le sue vicende ci dà occasione per qualche altro brandello di storia patria … triestina.

Trieste fu la prima città ad onorare la memoria di Verdi con il darne,  appena morto  (1901), il nome al teatro comunale,  a dedicargli una piazza e decidere per una grande statua da posizionare su un cubo di pietra. Statua da posizionare sotto il portico del Teatro.
Chissà forse anche a quel tempo al Comune c’erano progettisti del valente calibro di quelli del Ponte Curto,  sicchè l’idea di un grande basamento e una grande statua, il tutto messo sotto un portico non troppo alto, risultò impossibile. Lo scultore Laforet (2) pensò di risolvere questa quadratura del cerchio mettendo Verdi seduto (si può dire stravaccato?) su una comoda poltrona in modo da abbassare il più possibile gli ingombri.
Molto opportunamente alla statua venne in seguito data (1906) la collocazione di piazza San Giovanni e fu felice scelta.
La statua qui ci sta molto bene. Centrale e bene visibile. Di certo molto di più che sotto un portico.
Anche il fatto che sia seduto contribuisce ad una sua ampia visibilità. Mi viene in mente la infelice statua a Domenico Rossetti davanti al Giardino Pubblico. Imponente, elaborata, ma chi guarda in faccia Rossetti sì da indurre più facile un pensiero di ringraziamento verso questo  uomo cui la città (noi) tanto deve?
Lui è lassù, sulla colonna, in alto, troppo in alto.
Verdi è invece tra e con noi.
Come dire… qualche volta (ma solo qualche volta) gli errori pagano.

Le vicende della statua vanno ben oltre le disavventure di collocazione. La statua in marmo di Carrara collocata nella piazza nel 1906 venne presa a martellate dai filo-austriaci per reazione alla dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria nel maggio 1915. (3)
Presa a martellate non significa distrutta. I pezzi della statua furono portati in un magazzino del Comune e qui la vicenda si tinge di giallo. A guerra finita un rimpallo di responsabilità tra due funzionari del Comune, una commissione d’inchiesta nominata dal Sindaco per fare luce su chi diede ordine di ridurre in piccoli pezzi il monumento e se esso fosse realmente non riparabile.
Un vero peccato perché la statua rifatta in bronzo non è la stessa cosa. Ha perso smalto e vivacità. Così pare a me guardando le foto della statua originale in marmo.
Il rifacimento della statua, questa volta in bronzo, è sempre dello scultore Laforet. E per dare all’opera ancora più valenza politica, il bronzo fu ricavato dalla fusione di cannoni del vinto esercito austriaco.
E’ l’anno 1926 così come recita la scritta sul lato del basamento e non 1920 come riportato in molti siti.

Le date riferite alla decisione di fare una statua, al suo posizionamento e della sua distruzione – 1901, 1906, 1915, – fanno riflettere e ci dicono del reale “stato dell’arte” dei rapporti tra Trieste e il governo di Vienna.  Siamo agli inizi ‘900 e in una città sotto la dominazione austriaca può sorgere senza problemi una statua dedicata ad un chiaro emblema dell’irredentismo.
Difficile non leggere questo fatto come segno evidente di tolleranza del governo di Vienna ed anche di una buona autonomia delle istituzioni cittadine. E ci dice dell’ovvio precipitare del clima con una guerra che ha spaccato la città mettendo tutti di fronte a scelte sofferte. (4)

Il rapporto tra Trieste e Verdi fu sempre molto stretto. A Trieste Verdi, alloggiando all’Hotel de la Ville sulle rive, compose lo Stifelio,  la cui prima fu data al Teatro Comunale prima che esso fosse a lui intitolato.
Il compositore di Busseto fu caro soprattutto agli irredentisti chè alcune sue opere avevano tematiche decisamente patriottiche.  Si veda l’Ernani e soprattutto il Nabucco.
E sorte vuole che il nome Verdi sia l’acronimo di “Viva Emanuele Re d’Italia” sicchè gli irredentisti gridando W Verdi inneggiavano “legalmente” all’Italia.

Ma com’era la piazza prima? Al posto del palazzo Diana c’era un lavatoio. Nella piazza il commercio di latte e pane.
Al centro di essa un un pozzo scavato nel 1856 che dieci anni più tardi diede luogo ad una fontana a pompa.

Il Palazzo Diana domina la piazza con i suoi 3 piani e si presenta con sobria eleganza davanti agli occhi di chi, proveniente dai Portici di Chiozza, arriva alla piazza.
Diana, dal nome di Michele Diana, uno dei tanti commercianti divenuti ricchi e che volle per sé una casa di prestigio, oggi dichiarata di valore artistico e storico.
Siamo nel 1882 e l’architetto è tale Enrico Holzner che progetta un edificio di 3 piani. Nel 1950 vi è un ampliamento del palazzo e comunemente si trova scritto di un quarto piano aggiunto. Però basta guardare la facciata ed anche quella su via delle Torri per rendersi conto che le facciate non hanno subito variazioni. Solo entrando nel rettangolare cortile interno si vede che sui lati interni (quindi non visibili dalla strada) è stato aggiunto un piano.
Dentro l’atrio del palazzo, sulla sinistra, c’è la lapide che ricorda Paolo Reti, (5) militante del Partito Popolare e partigiano, fucilato dai nazi fascisti nel 1945.  La Democrazia Cristiana la cui sede provinciale era in questo palazzo provvide a ricordarlo con questa lapide.
Il Comune gli ha dedicato il tratto di strada (ex Imbriani) che va dalla piazza – tenendo la sinistra – alla via Carducci.

Nel palazzo la farmacia che aveva il doppio nome di “Farmacia de Leitenburg” ed anche “All’Ercole Trionfante”. Nella ragione sociale attuale si è perso l’Ercole. Esso però rimane forte come un’Ercole in 2 bassorilievi, anni ‘30, in bronzo sulla facciata ai lati dell’ingresso.
La farmacia è nel palazzo Diana dal 1959 quando prese il posto prima occupato da un salone di barbiere.
Ma essa ha origini ben più antiche ed è targa oro dei locali storici.
Sempre situata nella piazza, ma sull’altro lato dove oggi c’è il moderno bar Centrale Eppinger.
Il nome “de Leitenburg” ci riporta al palazzo che ha questo nome e si trova all’angolo della via Giulia con la via Rismondo,  anch’esso con una farmacia, la farmacia “Alla Salute”.
Stessa famiglia d’origine e poi fratelli che prendono strade diverse.(6)

E nella piazza altro negozio dichiarato locale storico,  la drogheria Toso, aperta nello stesso anno in cui ivi fu collocata la statua di Verdi (1906).  Ad aprirla Vittorio Toso il cui ritratto è appeso ad una parete del negozio nel quale non c’è triestino – giovane o vecchio – che non  sia entrato perché qui e solo qui si possono trovare prodotti non solo tipici di una moderna drogheria, ma anche spezie di tutti i generi, prodotti naturali e tanto altro. Anche turisti,  perché la fama del negozio va ben oltre i confini della città ed in questo caso ad attrarli è spesso la pubblicità della vendita di spugne naturali.
Tutto dentro la drogheria riporta al vecchio, dagli scaffali, al pavimento, ai contenitori di legno o di vetro per i prodotti. E il profumo/odore che è un mix non decifrabile di spezie di tutti i tipi. E saponi e petrolio e candele e legno.
Vecchia e consunta anche la scritta in mosaico sul pavimento dell’ingresso che dice “olla” ed Olla era una aziende austriaca produttrice di preservativi (7).

A fianco ora (2016) un Despar che ha preso il posto delle Cooperative Operaie che hanno preso a loro volta il posto di un vecchio negozio di specchi, lastre e porcellane “Zennaro e Gentilli”,  con Gentilli proprietario dell’intero palazzo progettato dall’ing. Vallon.
Chi mai avrebbe detto che a fine 2015 con una dichiarazione di fallimento questa ”istituzione” triestina – le Cooperative Operaie – crollasse ignomignosamente tradendo la fiducia di tanti che si erano fidati di un nome, di un marchio, di una (presunta) vicinanza al popolo?
Ogni impresa è destinata prima o poi a perire cosi come ogni persona. Brutto ed inaccettabile quando la morte è per omicidio. Così dico anche nell’articolo dedicato alla Dreher.
E’ del 2013 un libro edito dalla Lind (8) che racconta in un tono rassicurante del passato e presente (sic!) delle Cooperative operaie.
E’ del 2014 la scoperta dei cittadini della voragine finanziaria delle  (loro)  Cooperative operaie.
E’ più recente la scoperta – sulla quale ancora si indaga – della vendita di immobili delle Cooperative operaie a società ad essa riconducibili.
Di questo impero tipico della città sopravvive il ricordo amaro di una truffa che  è ancora più amaro per chi ha perso soldi.  Sopravvive, anzi a lungo sopravviveranno, le vicende giudiziarie.

Ancora vicino a Toso il bar Malabar che da alcuni anni ha il suo dehor sulla piazza. Caffè, qualcosa da mangiare e vino di tanti tipi sicché lo si potrebbe definire un caffè-buffet-enoteca.  Posto ideale – visto anche il nome – dove il giallista di successo Veit Heinichen fa incontrare alcuni personaggi dei suoi libri.

Sul lato che è di prosecuzione della via Giacinto Gallina, tre case di pregio, specie l’ultima, quella d’angolo con sotto i portici che vanno verso via Carducci:  Casa Minerbi anno 1880.
Qui dove ora c’è il Caffé Centrale gestito dalla Eppinger c’era – come si è detto  – la farmacia de Leitenburg, ma prima lo spazio è sempre stato luogo di ristorazione con ad inizio secolo l’ Antica Pasticceria Centrale divenuta poi Caffè Centrale. (9)
Nel 2014 in occasione del passaggio alla Eppinger è emerso sul soffitto un grande affresco che, pur non vincolato dalla Sopraintendenza alle Belle Arti ,  è stato mantenuto e per quanto possibile restaurato.

Bar storico e che ha mantenuto le sue caratteristiche originarie è il Caffè Corte sulla sinistra del palazzo Diana. Lungo e stretto.
Le sue caratteristiche – nome e forma stretta e lunga – derivano da lontano,  essendo questo spazio in origine il giardino – ossia la corte – di un vecchio Caffè che era situato nella parte sinistra del palazzo Diana dove oggi (2016) c’è il negozio Tigotà.  Sparito il caffè e tirato su un muro, ecco lo spazio lungo e stretto per quello che ebbe subito nome di Caffè Corte.
Intorno al 2010 il locale, dato in gestione a terzi,  ebbe nome di Caffè Liberty salvo poi ritornare all’antico nome.

Chiudo questo piccolo viaggio in piazza San Giovanni con Culot.
Nel palazzo Diana ad angolo con via delle Torri,  ingresso in questa via ed una vetrina sulla piazza, c’è questo vecchio negozio esistente da prima del ‘900, un tempo merceria e lane ed ora esclusivamente lane.
A pieno titolo anche questo negozio – come la farmacia e Toso – si è guadagnato la targa d’oro. (9).
Per 90 anni di proprietà della famiglia Culot, verso il 1990 il negozio è stato rilevato da Silva Fonda, ora aiutata dalle figlie affinché la tradizione di questa merceria abbia a durare ancora molti decenni. (10)

 

Nota 1
Silvio Rutteri, “Trieste, storia e arte tra vie e piazze”, Ed Lint

Nota 2
Alessandro Laforet, scultore lombardo a cavallo tra i due secoli. Vincitore del bando di concorso per la statua Verdi, risultò secondo per la statua ad  Elisabetta d’Austria ( piazza Libertà) la cui realizzazione fu affidata a Franz Seifert.

Nota 3
In città si ebbero vari episodi vandalici nei confronti di luoghi simbolo della italianità come il Caffè San Marco, il Caffè Stella Polare, la sede del Piccolo, della Ginnastica Triestina, della Lega Nazionale, del Caffè Fabbris

Nota 4
Sui drammi delle lacerazioni interne alla città e al suo tessuto sociale si fa cenno nell’articolo Il Manicomio
https://www.lamiatrieste.com/2016/02/06/il-manicomio/

Nota 5
Nell’atrio del palazzo Diana, entrando sulla sinistra c’è la lapide apposta dalla Democrazia Cristiana che ricorda il sacrificio di Paolo Reti.
La lapide così recita:

Paolo Reti
ira nemica straziò il suo corpo
e ne disperse le ceneri
ma dall’orrido rogo
altissima
si alzò nel cielo la fiamma
ad illuminare
il transito dello spirito immortale
del Martire della Libertà.

I democristiani triestini
che l’ebbero
nella dura resistenza allo straniero
amico e campione
di alte virtù famigliari e civili
ne additano il sublime esempio
di fede ed amor patriottiche

Risiera di San Sabba Trieste
7 aprile 1945   ———–   7 aprile 1949

Nota 6
Per gentile concessione della famiglia de Leitenburg e Modugno trascrivo qui breve sintesi ufficiale delle vicende della famiglia per quanto concerne la farmacia.

Giuseppe de Leitenburg ( 1776 – 1836 ), proveniente da Gorizia, in data 5 settembre 1805 ottiene la concessione per l’apertura di una farmacia nel “borgo franceschino” a Trieste.
Ciò appare dagli atti del I.R.G.L. ( Imperial Regio Governo del Litorale, atti generali b 550) del 1820 e da altri documenti dell’epoca.
La farmacia è denominata all’inizio “ALL’ERCOLE TRIONFANTE “.
A Giuseppe succede il figlio Carlo che vincerà l’appalto per la fornitura di medicine all’Ospedale.
Dopo la morte di Carlo sua moglie Anna ( ? – 1899) porta avanti l’attività sino a che due dei suoi figli ottengono il titolo per esercitare la professione.
Di questi, Giuseppe ( ? – 1913) , il primogenito, continua l’attività del padre in Piazza San Giovanni N° 3, mentre Edoardo nel 1877 apre la farmacia “ALLA SALUTE” in Via Giulia.
Dei figli di Giuseppe, Renato (1879 – 1953) ottiene il Diploma di “magister artis pharmaceuticae”  il 5 luglio 1907 a Graz e prende il posto del padre alla di lui morte.
Intanto la farmacia è stata trasferita dal N°3 al N° 5 ( Palazzo Diana) in quanto viene demolita la casa della prima sede.
A Renato, quindi, succede Renato junior (1904 – 1992), che esercita la sua professione  per  ben 60 anni.
Nel frattempo il figlio Dario vince un concorso per sedi farmaceutiche ed apre la farmacia “ALTURA” in Via Alpi Giulie il 1° dicembre 1980.
Basiliola ( 1939 – 2007), sorella di Dario, succede al padre Renato in Piazza San Giovanni N° 5, pronta a cedere il posto alla figlia Maria, farmacista dal 1988.

Nota 7
Questa è una nota di pura curiosità
che la consunta scritta all’ingresso della drogheria ci induce a fare.
Il termine volgare di goldone per indicare il preservativo ha origine dal nome di Luigi Goldoni che era rappresentante in Italia della Olla, azienda austriaca di produzione di preservativi.
A lui venne l’idea di produrre anche in Italia questo utile “oggetto”.
Sorse così a Bologna la fabbrica Hatù, super celebre e per tanti anni assoluta leader del mercato tanto da identificare talvolta il prodotto con il nome del suo costruttore (non inventore).
Divertente la storia che si narra a proposito di questa fabbrica nata nel 1922 allorquando Goldoni contattò le massime istituzioni ecclesiastiche della città per avere un beneplacito per la produzione di questo particolare … oggetto.
Sembra che la risposta ecclesiastica sia stata che non era un oggetto per “contra accipere” , ma per difendersi dalle malattie. Come dire … abbiamo un tutore che protegge la nostra salute e … usiamolo.  In latino il concetto si estrinseca con un  “
habemus tutorem” da cui il nome della fabbrica Hatù usando le prime 2 lettere delle 2 parole ha-tu.
Informazioni ricavate da articolo di Repubblica del 29 maggio 1998.
La mia breve riflessione su questa storia è che la Chiesa negli anni ‘20 era forse più aperta che non la Chiesa dei giorni nostri che – salvo timidissimi e contraddittori accenni di aperture – ritiene che non il preservativo, ma solo la totale astinenza sia la strada da percorrere contro le malattie da contagio sessuale.
(Chi l’avrebbe detto che entrare in una semplice e vecchia drogheria possa portare a queste riflessioni, giuste o non giuste, che siano)

Nota 8
Questa recensione tratta dal sito www.ibs.it è tragicamente comica per i termini usati come “diritti, doveri, valori, principi, Costituzione, partecipazione”. Ed è segno tangibile di come la truffa fosse a tutti ben nascosta sì da indurre un sito serio come www.ibs.it  ad un colossale abbaglio.
Nulla so dell’autore Luciano Peloso che pare abbia scritto solo questo libro. (sic!)

“Le Cooperative Operaie di Trieste, Istria e Friuli festeggiano nel 2013 i 110 anni di vita. Questo libro, che vede la luce per celebrare l’importante traguardo, ripercorre sinteticamente la loro storia e, con riferimento al tempo presente, richiama i valori, i principi e le caratteristiche dell’impresa cooperativa, la cui funzione sociale è riconosciuta dalla nostra Costituzione. Una particolare attenzione è dedicata a temi quali i diritti e i doveri dei soci, nonché la loro partecipazione nella gestione della cooperativa. Conclude il volume un omaggio a Sandro Pertini, con la pubblicazione delle pagine da lui dedicate alle cooperative di consumo nelle tesi di laurea in materia di cooperazione presentata nell’anno 1924.”

Nota 9
Ho ragione di ritenere – ma non ho certezza – che questa pasticceria sia stata aperta dalla famiglia Minerbi che fece costruire il palazzo ponendovi a livello della strada questo esercizio commerciale.
Cosi come la famiglia Gentilli, costruttrice del palazzo delle Cooperative Operaie, aprì il negozio Gentilli & Zennaro che poi lasciò il suo spazio alle Cooperative.
Come a fine ‘700 e poi primi ‘800 sorsero palazzi ( ad esempio  tutti quelli sul canale e molti altri del borgo teresiano) con sotto magazzini così poi a fine  ‘800 la tradizione di “casa e bottega” prosegue,  ma più spostata sui negozi.

Nota 10
I requisiti previsti dalla Regione F.V.G.  per il riconoscimento di locale storico sono:
– Esercizio commerciale che deve essere superiore ai sessanta anni.
– Ci sono poi altre due caratteristiche richieste: che il locale sia situato in un edificio di pregio storico e che sia dotato di arredi o strumentazione di valore artistico, oltre che storico e tradizionale.
La presenza contemporanea di questi ultimi due requisiti non è obbligatoria, ma è determinante per l’assegnazione della targa d’oro di locale storico, mentre alle attività che sono in possesso di un solo requisito, sempre oltre all’anzianità ultra-sessantennale, è riservata la targa d’argento.

Nota 11
Giuseppe Culot, dipendente in questo negozio, lo rilevò ai primi dello scorso secolo e fino alla morte avvenuta negli anni’50, ne fu proprietario aiutato da uno dei due figli che poco dopo si ammalò e morì in una casa di riposo di Gorizia.
Subentrò l’altro figlio,  Sergio Culot,  maestro nella scuola elementare di via Donadoni, che alla mattina insegnava e al pomeriggio era in negozio. Me lo ricordo a scuola e me lo ricordo dietro il banco del negozio tra i suoi merletti, bottoni, lane e signore, qualcuna, chissà,  forse,  anche attratta da quest’ uomo alto, dai modi gentili, dal viso aperto.
E qui si apre piacevole parentesi su come un negozio possa passare indenne guerre, successioni, cambiamenti radicali del mercato.
Dapprima una famiglia che dimostra unità e voglia di tenere in piedi questo negozio e che nel 1956 assume una ragazzina come apprendista. Viene trattata molto bene e lei ricambia con dedizione.
Nel 1973 muore Sergio Culot,  il negozio vacilla.  Ma per quasi 20 anni la ex apprendista divenuta commessa – la signora Silva Fonda – con accordi semplicemente  “sulla parola”  con le figlie di  Sergio Culot,  gestisce il negozio finché nel 1992 riesce a rilevarlo ed esserne titolare.
Oggi la signora Fonda,  non più giovanissima, ha inserito nel negozio le sue due  figlie in modo da dare ancora continuità al negozio.
L’insegna  “Culot”  sopra la porta del negozio è rimasta come segno – così dice la signora Fonda – di gratitudine e riconoscenza verso questa famiglia.

La mia Trieste, 6 Agosto 2016