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Il Canal Grande o Canale Ponterosso

Il Canale Ponterosso. Ponti che vanno e che vengono  (II parte)

La storia del Canale ha tante facce ed una è quella, appunto, dei suoi ponti. Cominciamo da qui.
Banali storie di manufatti che vengono fatti, rifatti, modificati nel tempo. Meno banale una di queste storie.
No, non è quella del Ponte Rosso, nè quella faceta del Ponte Curto, ma di altro e sarà piacevole insieme scoprirla.

C’era una volta un ponte.
Il primo, il Ponte Rosso, ed anche l’ unico che univa le 2 sponde.
Costruito contestualmente al canale, era in legno dipinto con vernice ad olio color rosso come quello, sempre in legno, che lo sostituì dopo solo un decennio. Ed in ferro quello costruito 70 anni dopo. Tutti tinteggiati in rosso, sì da nominare con il vivace loro colore anche la piazza, la piazza Ponterosso. (2)

Su un’unica cosa tutti concordano, ossia sul colore del ponte. Sul resto ossia se i primi 2 fossero apribili, se girevoli o levatoio, di che materiale fatto il secondo, di cosa potesse transitare sui ponti … beh tutto incerto ed ognuno dice la sua, così come, del resto, avviene inspiegabilmente, per tutti gli aspetti del Canale. Davvero un bel ginepraio. Però divertente.

La mia opinione – comunque frutto il più possibile di letture attente dei sacri testi della storia triestina – è che le prime due edizioni del ponte fossero in legno e in ciò contraddicendo anche una Relazione del Comune del 2016 che ricostruisce l’antica storia della zona del Canale. (3)
E’ mia opinione che anche il primo e anche il secondo fossero apribili, come comunque mi parrebbe logico. Altresì che il primo ponte in legno fosse levatoio e il rifacimento del 1767 fosse come ponte girevole. “Si apriva nel mezzo e in due parti che giravano ognuna da una parte del Canale” – scrive Michele Pozzetto nella sua preziosa opera del 1934 (4) e aggiunge “il ponte si arcuava in forma di parabola, sicchè per passarlo si saliva da una parte e si scendeva dall’altra. Un solo veicolo per volta poteva passarvi… non vi erano i marciapiedi. Al passaggio delle carrozze e dei cavalli il rappezzato pavimento di legno rombava.”

Nella dettagliata pianta della città del 1912 redatta dal sopracitato Pozzetto vedo che la parte utile per il transito dei velieri era circa la metà della larghezza del canale. Più o meno 14 metri, ma sufficienti per rendere operativo il canale fino alla sua parte terminale verso la chiesa a trabaccoli, bragozzi, batane, brigantini, gozzi (o guzzi come li chiama il Lorenzutti nel suo preziosissimo “Granellini di Sabbia, ricordi di vicende triestine” del 1907) .

Con questo ponte si rendeva percorribile al traffico quella che oggi è l’intera via Roma e che a quel tempo era via del Ponte Rosso fino al canale e poi via delle Poste dal Canale fino a via Carlo Ghega.

Il porto nuovo – quello che noi oggi chiamiamo Porto Vecchio – con le sue banchine, gru, magazzini, uffici, binari del treno, centrale idrodinamica, piazzali e tanto altro diventa splendida realtà alla fine dell’ ’800 e con il suo sviluppo rende pian piano inutile quella funzione di scarico merci che il Canale ha svolto per oltre 100 anni nonché l’uso del porto del Mandracchio. (5)

Anche il naviglio mercantile è nel frattempo profondamente cambiato. Ammainate definitivamente le vele si è passati alla forza motrice del vapore che prima ha azionato ruote e poi, dopo la sua invenzione da parte del triestino Ressel, l’elica. Una evoluzione che ha aumentato di molto il tonnellaggio e quindi le dimensioni delle navi che dunque potevano attraccare solo in un porto dotato di profondità delle acque e di infrastrutture moderne. Appunto il Porto Nuovo.

Scontato dunque che nel 1925 – stante la cessata funzione per la quale il Canale era stato costruito – si sia giunti a fare un ponte fisso in muratura al posto di quello girevole sicché solo piccole barche per una uscita nel golfo con la lenza a pescar guati sono rimaste a popolare questa finale propaggine di mare in terra ferma.
Il ponte andava comunque rifatto stante l’aumentato traffico di carri, macchine, persone che non poteva più transitare su un ponte sì stretto e sì rombante talchè di notte, per far dormire gli abitanti dei palazzi, era sempre rimasto chiuso al traffico di carri e carrozze.

La demolizione del ponte principia a marzo del 1925 ed ha termine il 19 settembre dello stesso anno. Questo mio annotare anno, mese e giorno non è per riempire la testa di inutili dettagli – che vi invito a scordare all’istante – ma solo per capire quale abisso di tempi di costruzione vi siano tra le antiche opere e quelle dei tempi moderni.

Provvisoriamente un ponte in legno ad uso dei pedoni fu costruito a lato del demolente ponte di ferro. Ponte provvisorio, ma comunque robusto perché – si dice – fosse, quel 19 settembre, strapieno di folla in attesa che il nuovo, in muratura, fosse aperto; cosa che avvenne alle 16.05 – così come annota il bene documentato Michele Pozzetto più sopra citato.

Poco altro questo ponte dice di sé, salvo salutare ogni mattina Joyce, sempre lì fermo da quando lo scultore Nino Spagnoli gli ha dato vita nel 2004 in occasione del centenario dell’arrivo dello scrittore irlandese a Trieste. E lì messo perché nei pressi Joyce ebbe la sua prima casa in affitto.

– Altra favola. C’erano una volta due ponti.
Un nuovo ponte arriva proprio all’inizio del Canale sul lato del mare. Un nuovo ponte portato dalla ferrovia. No, non intendo che carri merci l’abbiano trasportato nella nostra città proveniente da chissà dove. Anche perché a farlo chi se non le prestigiose officine Strudthoff di Trieste. (6)

Il punto è che la città nel 1857 si arricchisce di un piccolo particolare: la ferrovia che la collega a Vienna e al centro Europa. Ferrovia con la sua stazione. (7)
Il Ponte nasce nel 1858 e la contiguità delle 2 date non è casuale.

Quelle che noi oggi consideriamo “le rive” era una strada molto più piccola dell’attuale che da Sant’Andrea arrivava fino all’imbocco del Canale. Lì terminava. Ed anche la zona della odierna riva Grumula e piazza Libertà doveva ancora essere inventata.

Anche se la prima stazione era dalle parti di Roiano e non dove ora si trova, la necessità di un collegamento diretto – le rive – era più che evidente.

Per fare ciò era necessario un ponte che oltrepassasse il Canale e fosse anche girevole per consentire ai velieri di entrare dal mare nel Canale.
Dipinto di verde è il Ponte Verde.
Dopo 30 anni dalla sua costruzione il ponte venne modificato, ossia irrobustito per consentire il collegamento ferroviario con un binario che unisse la stazione Centrale alla stazione di Sant’Andrea. (8)
Ponte Verde irrobustito, ma non allargato stante le dimensioni strette delle rive sicché la sistemazione dei binari del tram e treno non consentivano contemporaneità di transito.

Anche lui ha capito nel 1925 che la sua sorte era segnata così come quella del Ponte Rosso che in quell’anno divenne – come abbiamo visto – un anonimo manufatto in cemento. Ma lui, il Ponte Verde, ha tenuto duro altri 25 anni pur senza adempiere alla sua funzione di girevole perché nulla di grande ormai doveva entrare più nel Canale.
Nelle grandi trasformazioni del dopoguerra è stato smantellato – come vedremo tra qualche riga – e sostituito con quello attuale in cemento e che offre solo durante la bassa marea a piccole barche di transitarvi sotto.

C’erano una volta tre ponti.
Ed è ancora la ferrovia a portare il terzo ponte, il Ponte Bianco che poi nella realtà era grigio, ma gli irredentisti un po’ daltonisti, lo vollero subito chiamare Ponte Bianco così da avere sul Canale il tricolore d’Italia: Ponte Bianco, Ponte Rosso, Ponte Verde.

L’aumento del traffico dei treni dalla stazione Centrale a quella di Campo Marzio – che nel frattempo ha sostituito quella di Sant’Andrea – il loro maggior peso, l’allargamento della sede stradale delle rive resero necessario e anche possibile un altro ponte a fianco di quello verde. Dunque il bianco solo per i binari del treno e il verde per traffico veicoli, tram e pedoni.
E’ agosto 1909.

La storia di questo ponte grigio/bianco non è solo – come per gli altri – qualche nota su date di nascita, girevole o meno, legno o ferro o muratura, colore, trasformazioni e poco più. La sua storia travalica la sua storia di ponte per entrare, seppure davvero molto indirettamente, nella leggenda.

Essere parte delle rive di Trieste è già un grande destino per un ponte. Ma la sua fine è insigne gloria perchè ha contribuito in maniera determinante, anche se del tutto indirettamente, ad una importante impresa scientifica.
Arrivato in mano ad un uomo straordinario come Diego de Henriquez – e tramite lui in quelle del celebre scienziato Picard (padre e figlio) – il ponte ha dato un determinante stimolo alle ricerche oceanografiche per lo studio delle profondità marine, degli ecosistemi, delle biodiversità.

Meglio però procedere con un po di ordine. Fondamentale in questa ricostruzione storica la ricerca fatta da Enrico Halupca pubblicata nel suo libro “Il Trieste”. (9)

Nel 1950 il Comune di Trieste e il GMA (Governo Militare Alleato) decidono di smantellare sia il ponte verde sia il ponte bianco sostituendoli con un unico largo in muratura (quello attuale).
Due anni prima di questa demolizione Henriquez e Picard figlio si erano conosciuti a Trieste e due spiriti così bizzarri, ma profondamente inclini alla ricerca, si erano piaciuti. Picard gli aveva parlato del batiscafo che lui e padre, assieme alla marina militare francese, stavano progettando. E gli aveva raccontato delle loro imprese effettuate con palloni aerostatici arrivati ad altezze di oltre 17.000 metri già negli anni ‘30.
Insomma più che sufficiente per incendiare l’entusiasmo di uno spirito curioso come Henriquez.

Le idee per un batiscafo da costruire per fini di studio e non militari c’erano in casa Picard ed anche il progetto esecutivo si stava affinando. Ma dove trovare i soldi, dove poter trovare le capacità tecniche necessarie alla costruzione?

Henriquez diventa determinante per portare quell’idea e quei disegni dalla carta alla profondità di 11 mila metri, tanto fu la discesa di questo batiscafo nella Fosse delle Marianne (10) Un record assoluto e solo pochi anni fa superato di qualche metro.

Henriquez assolutamente privo di risorse finanziarie, ma dotato di una incredibile intraprendenza e di capacità empatiche trovò in quegli anni, (11) bussando a tante porte, soldi e realtà produttive ad alta tecnologia (si pensi alle Acciaierie di Terni, ai Cantieri Riuniti dell’Adriatico ) che misero a disposizione tecnici e impianti.

Dal Comune di Trieste e GMA, Henriquez ottenne in dono prima il ponte verde che fu demolito ed alcune parti salvate per la sua collezione sul Colle di San Vito e poi il ponte bianco che invece di seguirlo nello stesso posto fu venduto come ferro e il ricavato messo nell’impresa. (12)

Ed ecco che il batiscafo è pronto e con il nome di batiscafo Trieste nel 1960 si immerge per la sua leggendaria impresa. Batiscafo battezzato “Trieste” in segno di riconoscenza da parte di Picard verso Henriquez e verso la città. E ancora in segno di riconoscenza la destinazione del batiscafo, una volta terminate le sue ricerche, al futuro Museo di Henriquez. Oggi per ragioni non imputabili a nessuno dei 2 protagonisti di questa storia il Trieste è esposto al Museo Navale di Washington privando Trieste del suo Trieste

C’erano una volta, dunque, due ponti
Proprio così. In tutto il periodo dal 1950 al 2013 i ponti sono stati due, il vecchio ed intramontabile Ponte Rosso in cemento dal 1925 e dunque non più rosso, ma di un conformato colore grigio-cemento e l’altro dal 1950 di pari colore grigio-cemento, sulle rive al posto dei bianco / verde.

C’erano una volta (e ci sono) tre ponti.
Ai due suddetti ponti in cemento (il Ponte Rosso e quello sulle rive) nel 2013 si è aggiunto un ponte, anzi una passerella pedonale, dove già nel 1950 il GMA (Governo Militare Alleato) aveva fatto costruire al proprio genio militare un ponte provvisorio, però ben robusto perche adibito al passaggio dei mezzi militari che in quegli anni assai circolavano ovunque nella città. Lo scopo era di evitare che, durante i lavori di demolizione del Ponte Verde e del Ponte Bianco e costruzione del nuovo ponte (quello che vediamo ora) all’inizio del Canale, si creassero problemi di traffico.

La passerella pedonale ora congiunge la via Cassa di Risparmio con la via Trento, facilitando così una mobilità di persone tra l’affollata e prestigiosa zona di via San Nicolò, piazza della Borsa, via Cassa di Risparmio con la zona meno prestigiosa che va dal Canale verso la via Ghega. Il Canale, specie nella sua parte verso il mare, è come una cortina di ferro di antica memoria tra una nazione ricca e una nazione povera. Stridente il contrasto tra queste due aree e al ponte-passerella è stato affidato il compito di attenuarlo.

Prima dell’approvazione della sua costruzione vi fu una sperimentazione con un ponte costruito dal genio militare – questa volta italiano – in modo che i triestini potessero esprimere a ragione il loro parere sulla utilità. Il parere fu – in barba al “no se pol” o al presunto conservatorismo dei triestini – un bel sì al ponte.

Era il 2008 quando i militari fecero quel ponte di prova e nel brevissimo (!) periodo di 5 anni la passerella è stata costruita. Era il 2013 quando il primo uomo (o donna) vi transitò sopra

Che poi questa passerella all’atto della sua installazione sia risultata un po’ più corta del necessario è cosa risaputa. (13) Meglio così perché aggiunge una nota di colore nonché un nome – Ponte Curto – a quello austero di ponte James Joyce.

Nota 2
Piazza Ponterosso, espressione della più squisita triestinità del tempo antico fatta di venderigole ivi sopravvissute fino agli anni ‘70 e poi le ultimissime fino al 2015 prima del loro passaggio in piazza Sant’Antonio.
Anche dall’altra parte della via Roma è piazza Ponterosso e in tempi lontani anche questa parte era tutta un susseguirsi di bancarelle. Poi negli anni ‘70 / ‘80 divenute bancherelle degli storici jeansinari. Storiche non perché hanno arricchito un po’ di persone, ma per essere state motore di un riavvicinamento di popoli. Dove non potè la politica, poterono jeans, caffè. magliette, bambole, frigoriferi, anelli e catenine d’oro.
Piazza Ponterosso fatta anche dalla fontana del Mazzoleni con il “Giovanin”. E ora dal vuoto totale. Spesso il grande merito di varie ristrutturazioni fatte a Trieste è stato quello di aver creato il vuoto.
Neppure acqua a fare di una fontana una fontana e neppure le lacrime del Mazzoleni, contemporaneo di Maria Teresa (seconda metà del ‘700), bastano per far zampillare quei putti. Ahh Mazzoleni povero in vita perché non pagato dal Comune di Trieste per le sue 3 grandi fontane e ora ancora povero Mazzoleni da morto per l’incuria verso i suoi lavori. Delle sue 3 fontane – quella del Giovanin (1753); la fontana dei Quattro Continenti in Piazza Unità (1754).; la fontana del Nettuno in Piazza della Borsa (Trieste) (1755); – ben 2, Giovanin e 4 Continenti, sono a secco.
Ottima scelta per delle fontane.

Nota 3
La Relazione tecnico-illustrativa del febbraio 2016 per la Riqualificazione delle sponde del Canale di Ponterosso a cura del Comune di Trieste a proposito del ponte dice che solo l’originario fosse stato in legno e i successivi in ferro. Si legge infatti “sostituito sia nel 1766 con uno in ferro a due campate girevole, per consentire il transito delle imbarcazioni, e nel 1832 con un ulteriore nuovo ponte in ferro”.
Il Generini qui citato praticamente in tutti gli articoli di questo sito per essere fonte inesauribile e preziosa di notizie ante 1884 (data di pubblicazione del suo librone) nulla dice in proposito.
Il prof. Silvio Rutteri appare incerto nel suo libro “Piazze e Strade di Trieste” mentre non pare avere dubbi nel testo del volume “Antiche stampe di Trieste” dove specifica: “ponte in legno gettato sul canale nel 1756, rifatto da levatoio in girevole nel 1767 e quindi in ferro nel 1832”

Nota 4
Il Porto di Trieste dal 1700 in poi” Michele Pozzetto, 1934

Nota 5
Come si è detto il traffico merci era essenzialmente legato al commercio del sale e quindi il porto del Mandracchio (chiamato anche Porto Piccolo ed a ragione perché era piccolo) era più che sufficiente. Esso era una parte della attuale piazza Unità.
Il vecchio porto che era stato il porto romano sito tra la nostra attuale sacchetta e dove poi è sorta la Lanterna era ridotto in cattive condizioni per detriti e bassi fondali sicché i velieri grandi che lì volevano attraccare restavano all’ancora e il trasbordo merci avveniva con barche piccole in grado di arrivare a terra.
Altre velieri attraccavano in tutta la zone delle rive e dei moli esistenti, ma non si poteva questo considerare una soluzione funzionale.
Questa la situazione ad inizio 1700 e quindi quanto opportuna l’idea di un nuovo valido approdo per i velieri di piccole o medie dimensioni. Il Canale ne poteva ospitare una trentina. Ogni veliero per un massimo di 15 giorni con tariffazione giornaliera.
Il Mandracchio si spegne del tutto quando la piazza Grande (Piazza Unità) diventa davvero grande con la demolizione di case e l’interramento del Mandracchio.

Nota 6
Simeone Strudthoff , un tedesco del nord, arrivato a Trieste ai primi del 1800 apre una fonderia che diviene anche stabilimento di meccanica di precisione per motori a vapore. Agli Strudthoff si deve l’apertura del cantiere San Rocco a Muggia e dello Stabilimento Tecnico Triestino che poi darà vita alla prestigiosa Fabbrica Macchine di Sant’Andrea.

Nota 7
Nel 1857 la stazione non era dove è adesso. Per una breve storia della stazione e della ferrovia per Vienna vedi qui sul sito “La Stazione Centrale”

Nota 8
Per essere precisi il “treno delle rive” ha iniziato a congiungere la Stazione Centrale con quella di Sant’Andrea che era sorta nel 1887 per la linea Trieste- Erpelle e poi per la Parenzana.
Solo nel 1906 è pronta la grande Stazione di Campo Marzio che mette in pensione la stazione di Sant’Andrea e il Ponte Bianco o grigio che dir si voglia, è già in funzione per quel provvisorio treno delle rive che è durato “provvisoriamente” fino al 1981.
Eppure il primo progetto di circonvallazione risale al periodo fascista.

Nota 9
Enrico Halupca, coautore dei volumi “Trieste Segreta” editi da Lint, ha travasato in un affascinante volumetto “ Il Trieste” edito dall’Accademia degli Incolti e Italo Svevo, 2019, il frutto di attente ricerche sui rapporti tra Picard e Henriquez e il ruolo determinante di quest’ultimo per la realizzazione del batiscafo “Trieste”. Nel libro è riportata molta inedita corrispondenza intercorsa in quegli anni tra queste 2 straordinarie persone e tali lettere costituiscono fonte storica fuori da ogni incertezza.

Nota 10
La Fossa delle Marianne è la maggiore profondità marina del nostro pianeta. Sono 10.994 metri sotto il livello del mare. Il Batiscafo Trieste è arrivato nel 1960 a 10.916. Il record è stato superato di 8 metri nel 2019 cioè dopo 59 anni.

Nota 11
De Henriquez aveva una straordinaria capacità di riuscire ad aprire porte impossibili, farsi ricevere e ottenere quasi sempre ciò che chiedeva. Unica sua richiesta sempre inascoltata da vivo e da morto è stata quello di poter aprire un Museo con dentro tutte le sue raccolte.
Lo so, è poco elegante autocitarsi, ma per una volta mi si perdoni. Nell’articolo dedicato a quello che “sarebbe” il Museo che la città ha aperto con il suo nome dopo … 60 (sessanta) anni dalla sua morte, racconto la passione che metteva nel suo lavoro di ricercatore che finiva per anestetizzare i suoi interlocutori. In tempo di guerra ..”Per lui nessun problema a entrare nei comandi militari dei nazisti, dei partigiani, degli anglo-americani, dei titini. Avere informazioni per i suoi studi e in molti casi anche il permesso di fotografare. Addirittura formali elogi per il suo lavoro da parte dei vari comandi militari”.
E qui nell’impresa del batiscafo Trieste, in tempo di pace, un Henriquez capace di ottenere aiuti concreti dal sindaco Bartoli, dai Cantieri Navali di Monfalcone, dalle Acciaierie Terni, dai comandi della Marina Militare Italiana e del Governo Militare Alleato, dalla Cassa di Risparmio di Trieste…
Una vicenda appassionante che il libro di Halupca (vedi nota 9) racconta e che per il suo fascino ha attirato l’attenzione della società cinematografica “SineSoleCinema” che si appresta (metà 2020) a girare una docu-fiction sul batiscafo Trieste che a Trieste ebbe i suoi illustri natali per merito di 2 persone eccezionali come Jacques Picard e Hentiquez.

Nota 12
Su un sito importante – di cui evito citazione – dedicato a Trieste si legge delle difficoltà economiche del “povero” Henriquez ed a proposito del Ponte Bianco: “Disgraziatamente in seguito de Henriquez fu costretto a vendere anche questo ponte”
Certo, ponte venduto, ma non per pagare suoi eventuali debiti.
Nulla a questo proposito dice il sempre dettagliatissimo Zubini che nel volume dedicato al Borgo Teresiano scrive: “Nel 1950 il ponte verde e il ponte bianco vennero sostituiti da un solo largo ponte in muratura; il ponte verde venne rimosso nel mese di maggio con l’aiuto di mezzi di sollevamento e trasporto delle forze armate americane e trasportato al deposito di S. Vito di de Henriquez”
Ma nessun cenno al Ponte Bianco.

Nota 13
Imbarazzo. Questo è ciò che si percepisce nelle note ufficiali a commento che il ponte non aveva la lunghezza giusta. Wikipedia recepisce – e come potrebbe essere diversamente – gli umori ufficiali e scrive “un presunto errore di misurazione della larghezza del canale “ . Dunque nessun errore, tranquilli, ma solo presunto errore.
Il ponte è fatto in acciaio e vetro, illuminazione in basso lungo i corrimani. Lunghezza 24 metri, ma qui più che mai è d’obbligo dire … circa 24 metri.

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La mia Trieste, 3 Giugno 2020